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Nella Valle dell'Omo, Etiopia - Parte IV

Diario di un viaggio in un museo a cielo aperto

 

...segue 

 

9° giorno - Percorso spinoso 

Oggi visita all’Omo National Park. Non che mi aspetti granché, a dire la verità. L’African Parks Conservation, l’ente no profit che si occupa della gestione di parchi faunistici anche in altri paesi del continente, dopo averlo preso in gestione nel 2005, nel 2008 ha rinunciato all’incarico, come avvenuto anche per l’altro parco etiope del Nechisar. In pratica i locali hanno sempre continuato a cacciarvi indiscriminatamente. Secondo il governo etiope avevano firmato un documento (con un’impronta digitale) nel quale rinunciavano a cacciare nel territorio del parco mentre loro sostengono di essere stati costretti a firmare con l’inganno. L’ANP ha cercato di sistemare la diatriba, in pratica facendosi portavoce dei timori degli autoctoni che volevano la garanzia che le terre non gli sarebbero state portate via grazie a questo documento. Il governo etiope ha risposto di non impicciarsi, che questi sono affari interni. Morale: il parco ora è in pratica abbandonato a sé stesso. Difatti più che una numerosa ma timida mandria di hartebeast (che ad un centinaio di metri dalla jeep se la danno a gambe levate) e qualche sparuta coppia di dik-dik non c’è stato modo di vedere.

 

Più interessante, almeno ai miei occhi, il villaggio degli scontrosi Nyangatom, storici nemici dei Surma che li chiamano con lo spregiativo di Bume e coi quali ciclicamente si accapigliano in guerre tribali. Il ranger che ci fa da scorta armata è uno di loro e ci guida al suo villaggio, davvero introvabile, lontano da qualsiasi pista, circondato da chilometri e chilometri quadrati di parco e nascosto da un recinto di arbusti: mai viste in vita mia delle abitazioni così lontane da tutto e da tutti. Vivono in capanne con una curiosa entrata laterale e paiono, inizialmente, cordiali. In breve i ruoli si capovolgono e sono io, il visitatore, ad essere subissato di domande sugli usi e costumi dei “bianchi”. Rispondo divertito anche se un po’ mi stupisce la “ingenuità” del ranger: in fin dei conti lavora al quartier generale del parco, dei bianchi dovrebbe averne visti e conosciuti parecchi. Pian piano però mi rendo conto che non è propriamente amichevole: mentre rientriamo al camp pare che le domande che pone abbiano il solo scopo di cercare le risposte che confermano i suoi punti di vista: i bianchi sono stupidi perché si sposano una donna sola, sono pazzi perché lavorano negli uffici invece che badare alle vacche, sono sporchi e ce l’hanno piccolo (sic!), sennò non si coprirebbero di vestiti. Meno male che siamo arrivati a destinazione, il Borghezio dell’Omo Valley col fucile comincia a diventare pesante e mi sento spiritualmente un po' Surma.

 

Campeggio all

Campeggio all'Omo N.P. - Archivio Fotografico Pianeta Gaia

 

Si parte con destinazione Kangaten, un villaggio sulla riva del fiume Omo. La guida e il nostro pilota non si sono mai spinti fino a queste latitudini, il cuoco e il suo autista, che invece lavorano per ovvi motivi solo nelle zone più sperdute, ci sono stati tempo fa, e quindi sono loro a fare strada. “Pista” è oggettivamente un eufemismo: ogni tanto si vedono delle tracce di pneumatici precedenti ma più spesso si fa lo slalom tra la vegetazione cercando di tenere una generica direzione sud-sud-est. Gli alberi sono quasi esclusivamente acacie, ma non quelle classiche con il tronco alto e l’ombrello di foglie a far ombra a qualche giraffa come si vede nei documentari: sono arbusti bassi, al massimo di 2/3 metri, pieni di spini dalla radice alla punta dei rami. Anche oggi il finestrino non può stare abbassato se non per far passare un refolo d’aria: ogni 10 metri circa una frustata di quegli spinosi rami ci ricorda a cosa andremmo incontro se tenessimo il vetro abbassato. Sosta per rifocillarsi in mezzo al nulla: a occhio io e la guida calcoliamo una temperatura sui 35°. Riprendiamo e dopo un po’ troviamo dei “binari” di auto precedenti: segno che ci stiamo avvicinando alla civiltà e che a quel bivio dove il pilota si era a lungo interrogato sul da farsi aveva preso la direzione giusta.

 

Proseguiamo verso sud e finalmente la foresta si dirada, si vedono delle capanne ogni tanto e presumiamo di essere vicini alla meta. Ci infiliamo in una strada che sembra portare al cuore del villaggio, incrociamo un poliziotto che alza la mano a mo' di saluto e sia il pilota sia io che sto davanti rispondiamo, con un sorriso e la mano alzata. Arriviamo ad un punto morto e la guida esce per chiedere consigli. Errore: non siamo arrivati a Omorate ma a Bume Kibish. Dietro-front ma mentre stiamo per ripartire arriva il poliziotto di prima, incavolato. "Perché non vi siete fermati al mio segnale?". Il pilota sostiene di non aver inteso di doversi fermare, pensando che fosse solo un cenno di saluto. Il poliziotto non ci crede e ci chiede di esibire i documenti. Si crea una piccola folla attorno a lui e i nostri documenti vengono perlustrati da decine di occhi, anche se il mio pezzo di carta non solleva i problemi che temevo nel porgerlo. Continuano le spiegazioni da parte di pilota e guida ma il poliziotto ormai sta facendo la parte del duro agli occhi dei suoi compaesani. Esaminate le carte con la massima lentezza possibile, ormai non ha molte altre alternativa se non quella di lasciarci andare o trattenerci. Per fortuna ritiene di aver già fatto abbastanza figura davanti ai compaesani e ci lascia andare, tra l'evidente sollievo del nostro staff che meglio di noi sa quanto, a queste latitudini, porti sfortuna entrare nel mirino di uno in uniforme.

 

Villaggio Nyangatom

Villaggio Nyangatom - Archivio Fotografico Pianeta Gaia

 

Ormai Kangaten è a pochi chilometri e anche se è già zona davvero poco visitata chiedo alla guida di vedere un villaggio fintanto che ne siamo ancora sufficientemente lontani, presumendo che quelli a ridosso siano visitati da quei pochi bianchi che attraversano il fiume a Kangaten in barca. Ci fermiamo in uno piuttosto grande, davanti all’ingresso del recinto. In un attimo si radunano una ventina di locali, più che altro donne e bambini. Un minuto dopo si aggiungono altrettanti uomini, che erano fino ad allora impegnati nella costruzione di un edificio ad alcune centinaia di metri da lì. Giungono quasi di corsa, si capisce che per loro è davvero un’evento. Ma non c’è nessuno che parli amarico, sono talmente isolati che non hanno nemmeno il canonico ragazzo più istruito che funge da guida occasionale. Non c’è modo di capirsi, e già c’è da discutere quando si parla la stessa lingua, in più sono tanti e anche un po’ sovraeccitati dalla nostra presenza: la guida ci fa capire che è meglio salire in auto. Eseguiamo e loro capiscono che stanno perdendo l’opportunità di raggranellare due soldi: ci seguono, bussano minacciosamente ai finestrini, si mettono davanti al paraurti per sbarrarci il passo. Alcuni addirittura si attaccano agli specchietti laterali per non lasciarci andare via ma senza mettere sotto nessuno riusciamo a svicolare. Un altro quarto d’ora poco simpatico: non posso che pensare che la durezza di questo popolo è direttamente proporzionale a quella della terra che abita.

 

Giungiamo a Kangaten e, non che mi dispiaccia, per una volta non siamo al centro dell’attenzione. È appena atterrato con un paio di elicotteri il presidente della regione e il suo corteo in tour elettorale e ovviamente tutti sono accorsi ad ammirare l’ingresso trionfale del dignitario. Grazie a questo la nostra jeep passa quasi inosservata, almeno fino a quando non passiamo anche noi dove la gente si è accalcata e dove ci guardano come fossimo dei marziani. Il campeggio non è un campeggio, è solo un pezzo di terra coltivato, con una paio di edifici ma soprattutto recintato, e dà direttamente su uno strapiombo di una trentina di metri sul fiume Omo. C’è ancora tempo per una visita ad un villaggio Nyangatom. Questi qualche turista devono averlo visto: appena ci vedono in giro per il villaggio le ragazze più carine vanno a tirare fuori i monili delle feste e sfoderano il loro miglior sorriso per invogliare a scattare una foto. Sorriso che contrasta col pianto disperato di una vecchia, sconsolata per la morte di un capretto. Di ritorno alla tenda, ci gustiamo uno spettacolare ritiro nei suoi appartamenti del disco solare, con i raggi che si riflettono sulle, viste da quassù, placide acque dell’Omo.

 

10° giorno - Crociera avventurosa

Di nuovo verso sud, per arrivare sulla sponda ovest dell'Omo all'altezza di Omorate. Poiché è tragitto poco noto anche al pilota del cuoco, assoldiamo un locale che ci fa da guida. Inizialmente la pista è abbastanza visibile ma poi, seguendo le indicazioni del locale, prendiamo una deviazione e ci addentriamo in una selva di acacie. Tempo pochi minuti e foriamo, sembra quasi un monito. Proseguiamo per ore a farci frustare dagli spini della vegetazione, per la disperazione del nostro pilota che è un maniaco della pulizia dell'auto: una volta arrivati a destinazione guarderà sconsolato la capillare serie di sfregi lasciati sulla carrozzeria. La nostra guida non è convinta: ogni tanto si ferma e si consulta coi piloti, sembra più che si segua una direzione piuttosto che una pista vera e propria. Dopo ore finalmente sbuchiamo su un binario ben leggibile di pneumatici: nella nostra auto è opinione comune che siamo tornati nella pista che il locale ci aveva fatto prematuramente abbandonare. Consultato all'arrivo, dirà che lui ci ha fatto fare il giro che conosceva, ma non esclude che ce ne siano altri di migliori. Appunto. L'importante è arrivare sani e salvi, e nella sfortuna di aver probabilmente sbagliato percorso, abbiamo comunque attraversato una zona davvero remota che ci ha permesso di avvistare alcuni animali piuttoso rari: per la prima volta vedo una coppia di serpentari volare affiancati e un caracal che, spaventato, ci ha attraversato la strada di corsa.

 

Finalmente giungiamo a destinazione e la guida che ci accompagnerà nel resto del viaggio è già arrivata ma è ancora dall'altra parte del fiume. Scarichiamo la nostra roba e salutiamo la guida del primo tratto perché deve rientrare ad Addis Abeba e, facendo lo stesso percorso a ritroso, passerà da Suri Kibish a vedere se ci sono nuove sul mio passaporto, mentre il cuoco e l'attrezzatura per campeggiare rimangono con noi ancora per 24 ore. Piantiamo le tende, in uno spazio recintato, dove tra l'altro si è radunata una piccola folla che ascolta degli oratori. Siamo in piena campagna elettorale, come dimostrato anche dalla visita del presidente della regione il giorno prima, e si sono dati appuntamento qui tutti i capivillaggio della zona e di entrambi i lati del fiume. Questo ci complica un po' l'esistenza perché nel pomeriggio abbiamo in programma di scendere le acque del fiume fino a dove si apre il delta che lo fa sfociare nel lago Turkana, ma il "traghetto", che altro non è che una bagnarola che può portare al massimo una decina di persone, fino a quando il summit non si è concluso e non ha riportato sull'altra sponda tutti i partecipanti non è disponibile. Parlando con noi la nuova guida ci dice che con le barche sorgono sempre dei problemi del genere o legati alla loro manutenzione, al punto che la titolare dell'agenzia stava pensando di acquistarne una. Dopo un paio d'ore di discorsi più o meno infervorati finalmente tutti si alzano, si stringono le mani e prendono la direzione di casa. Dopo quasi un'oretta la barca è finalmente a nostra disposizione, ampiamente in ritardo rispetto al previsto. Il "molo" lascia abbastanza a desiderare: la riva scende dal livello della pianura a quello dell'acqua come è stata modellata dal fiume, cioè ripida e di terra, quindi decisamente scivolosa. Già non è facile per me che ho degli scarponi, figurarsi per il nostro compagno di viaggio azzoppato che non riesce a poggiare il piede. Ovviamente tutti gli occhi dei locali sono per lui e per i suoi faticosi tentativi di spostamento, che generano sempre interesse e solidarietà da parte di tutti che cercano di aiutarlo o di consigliare rimedi o cure.

 

Vita sulle rive del fiume Omo

Vita sulle rive del fiume Omo - Archivio Fotografico Pianeta Gaia

 

La barca scende il corso del fiume ma il vento è contrario e genera onde antagoniste. Sulle rive del fiume si vedono garzette, aironi, marabù, aquile pescatrici e qualche raro coccodrillo. Ogni tanto spunta qualche locale: chi si lava, chi raccoglie l'acqua, chi lavora i campi, chi semplicemente si gode il paesaggio del quale anche noi facciamo parte.

 

Dopo un'oretta giungiamo dove il fiume si divide in due bracci e isola un lembo di terra fra di essi: in pratica una grande isola, all'interno della quale il bestiame viene lasciati libero di pascolare. Siamo a circa 20 km in linea d'aria dal confine col Kenya. E' qui che scendiamo per visitare un villaggio Dasenech (spregiativamente chiamati da altri popoli Galeb), il popolo che abita Omorate e i suoi dintorni. La guida invece di portarci in quelli a ridosso dell'abitato ci ha fatto visitare questo con il quale c'è una specie di accordo di "esclusiva": in media ci porta un gruppo all'anno. Tutto bello: la gente, la loro disponibilità e il paesaggio decisamente più verde della norma vista l'abbondanza di acqua disponibile.

 

Comincia il rientro, il vento è cessato e quindi risaliamo la corrente senza la sua spinta alle spalle. Mentre siamo distratti da un tramonto infuocato, il motore della barca si spegne. Ahia. Ma è solo finito il carburante, diagnostica il caronte africano che estrae una tanica con la benzina, una bottiglia di plastica con l'olio e confeziona la miscela al momento, sotto lo sguardo poco tranquillo della guida che teme sempre dosaggi poco efficienti. Inserito il propellente, il marinaio tira la messa in moto a strappo del fuoribordo... e gli rimane in mano il cavo. Bestemmie assortite. Per ripararlo occorrerebbero degli attrezzi che ovviamente il comandante non ha con sé. Utilizzando come fosse una pagaia il bastone che serve per staccarsi da riva, raggiungiamo a fatica una delle rive. La nostra guida e la guida locale si avventurano alla ricerca degli attrezzi e spariscono, lasciandoci sulla riva mentre il sole sta ormai scomparendo all'orizzonte. Dopo mezz'ora circa sono di ritorno con un cacciavite e, alla luce delle torce elettriche, aprono il motore e dopo un po' estraggono il cavo. Risaliamo sulla barca e dopo qualche tentativo, dopo ognuno dei quali il cavo va riavvolto a mano, il motore parte. Deo gratias. Ripartiamo e risaliamo il fiume ormai nel buio più completo. Aveva ragione il t.o. a volere una barca per sè, tenuta sempre in ordine e non affidata a qualcuno che, per risparmiare, ripara il mezzo solo quando si rompe.

 

Non facciamo in tempo a goderci la luna specchiarsi sull'acqua che il motore, con un rumore sordo, si spegne un'altra volta. Penso: "Va bene l'avventura, ma cerchiamo di non esagerare, eh...". Navigando al buio non sono visibili le bottiglie di plastica che servono da galleggianti e da segnalatori delle reti: una si è completamente aggrovigliata all'elica. Tiriamo di nuovo fuori le torce elettriche e le diamo al marinaio e al mio conterraneo che, armati di coltelli, cercano di recidere le maglie della rete per liberarci. Certo non un bel regalo per il pescatore ma in situazioni estreme vige il mors tua vita mea, sorry. Mentre la barca pian piano viene riportata verso il delta dalla corrente, sentiamo provenire dal buio il suono di pesanti tuffi: saranno bagnanti al chiar di luna o coccodrilli? Nonostante i ciclici messaggi sconfortanti del mio compaesano ("E' inutile, non ce la facciamo", "E' meglio che raggiungiamo la riva col bastone e poi torniamo a piedi"), dopo una 40ina di minuti l'elica viene liberata e possiamo riprendere la strada del ritorno. Individuato l'approdo solo dalle poche luci esistenti, affrontiamo il ripido argine la cui salita, tra buio e scivolosità, genera spunti di comicità: forse a spingerci a prenderla sul ridere è anche la sensazione di scampato pericolo che proviamo. Ultima notte in tenda, almeno per un po'.

 

11° giorno - Riti Hamer

Salutiamo il cuoco e il suo pilota, attraversiamo il fiume, saliamo sull'auto che ci scarrozzerà per la restante parte del viaggio e conosciamo il nuovo pilota, un musulmano molto meno espansivo dei ragazzi che l'hanno preceduto. Meno male che la guida, benché parli solo inglese, compensa con la bravura e la simpatia e, non ci è ben chiaro come, riesce ad esonerarci dal controllo dei passaporti. Ora siamo nella parte più "turistica", d'ora in poi dormiremo in lodges anche se i sacchi a pelo e una tenda li abbiamo trasbordati in previsione di una notte presso un villaggio Hamer. Giungiamo a Turmi, scarichiamo i bagagli al lussuoso Buska Lodge e poi andiamo a visitare il locale mercato, è la giornata giusta. Si vede subito che sono più abituati ai turisti ed è difficile rubare qualche scatto come mi è capitato qualche volta nei giorni precedenti: sono tutti lì pronti a fare segno di no col dito se prima non hai condotto una trattativa. Non si dimostrano nemmeno particolarmente disponibili: o accetti la loro tariffa oppure niente, tanto di turisti ne arriveranno presto degli altri. Grazie allo zoom qualche espressione un po' più spontanea del classico "ritto sull'attenti" riesco comunque a catturarla, ma che fatica. Nel frattempo si vedono delle ragazze attraversare il mercato con dei sonagli alle caviglie: la guida si informa e scopriamo che nel pomeriggio si terrà una cerimonia del "salto del toro" non lontano da qua. Benone.

 

I segni delle frustate sulla schiena di una ragazza Hamer

I segni delle frustate sulla schiena di una ragazza Hamer - Archivio Fotografico Pianeta Gaia

 

Ci rechiamo nel luogo convenuto, un piccolo spiazzo vicino al letto asciutto di un fiume. Siamo arrivati presto, siamo gli unici bianchi per ora (ma poi giungeranno una ventina circa di occidentali, soprattutti spagnoli e francesi) ma non è possibile sedersi o appoggiarsi perché suolo e alberi brulicano di formiche, come mi accorgo al primo tentativo. Prima della cerimonia si svolge una specie di rituale durante il quale le donne chiedono agli uomini di frustarle. E' un'atto che serve a rinforzare i legami familiari, visto che le donne appartengono tutte allo stesso clan, e come i Surma si fanno belli delle ferite che si procurano nel donga, così le donne Hamer esibiscono fieramente le cicatrici rimediate in queste occasioni. Gli uomini paiono piuttosto recalcitranti a sferrare i colpi ma, sfiniti dalle insistenze delle invasate che letteralmente li supplicano di frustarle, vibrano colpi che lasciano profonde e sanguinanti ferite sulla schiena delle ragazze. Il tutto condito da danze e canti, di solito orchestrati dalle più anziane. Dopo alcune ore gli uomini si radunano, accovacciati: hanno strane acconciature, in pratica hanno il capo ricoperto di fango colorato all'interno del quale mettono anche dei piccoli sostegni per le piume di struzzo che li orneranno. Vengono poi individuati i giovani che parteciparenno alla cerimonia: il ragazzo che eseguirà il rito ha i capelli sciolti e cotonati, non a treccioline o col fango colorato come gli altri. Ad altri giovani vengono praticate delle pitture sul volto, saranno quelli che lo assisteranno durante la cerimonia.

 

Poi ci si sposta tutti dove avverrà il rito, a qualche centinaia di metri di distanza, in uno spiazzo in mezzo alla foresta dove c'è una mandria. Il "salto del toro" segna il passaggio all'età adulta. Sempre preceduto da canti e danze, vengono raggruppati, e poi vengono tenuti fermi da uomini dello stesso clan, alcuni tori (6 in questo caso) sui quali l'iniziando, completamente nudo se si eccettuano un paio di lacci vegetali che porta incrociati sul torso, dovrà saltare e poi camminare senza cadere per 4 volte. Una volta completato questo rito acquisisce lo status di "mana" e ogni villaggio che non sia il suo gli deve garantire cibo e ospitalità fintanto che non trova moglie oppure fintanto che non costruisce la capanna dove vivrà: un metodo per evitare i problemi legati alla consanguineità. Di norma questo status dura circa 3 mesi.

 

Il salto del toro è un rito di passaggio nell

Il salto del toro è un rito di passaggio nell'età adulta - Archivio Fotografico Pianeta Gaia

 

Prima serata al lodge, con doccia e cena al ristorante con tovaglia e cameriere. La prima graditissima, la seconda già meno. Non che pretenda chissà cosa ma, sarà per il fatto che i menù alla fine presentano sempre più o meno le stesse cose, sarà perché è più bello avere come volta un cielo stellato che un tetto di paglia, già sento la mancanza delle impagabili cene del nostro cuoco del primo tratto del viaggio. In serata c'è una telefonata per me: la guida della prima parte del percorso, facendo a ritroso il percorso, è appena passata dal posto di polizia di Suri Kibish. Purtroppo non ha buone notizie da darmi, del mio passaporto non si sa nulla. Devo a questo punto anticipare il rientro ad Addis Abeba per fare un documento sostitutivo, cosa che richiede un intero giorno lavorativo: sfortuna vuole che il volo di rientro sia previsto per il 2 novembre, il 1° novembre l'ambasciata italiana non è aperta (rispettano tutte le feste italiane e anche quelle locali, mica fessi gli indefessi lavoratori del Ministero degli Esteri), il 30 e 31 di ottobre sono sabato e domenica, quindi dovrei essere ad Addis Abeba la mattina del 29 per riuscire ad avere il documento in tempo utile: in pratica rientrare 4 giorni prima rispetto all'itinerario previsto, cosa che peraltro dovrei imporre anche ai miei compagni di viaggio, anche se mi par di capire che, chi per un motivo chi per un altro, non ne sarebbero completamente dispiaciuti. L'alternativa è effettuare le pratiche il giorno 2 novembre e poi partire il giorno successivo. Peccato solo che il mio biglietto aereo non sia aperto e, in pratica, anche spostando di un solo giorno il rientro, dovrei di fatto comprare ex-novo il biglietto aereo: se costa la metà di quello di andata e ritorno, il prezzo si aggirerà sui 400 euro. Inutile dire che nessuna delle due opzioni mi piace. La guida mi richiamerà la sera successiva e dovrò dargli la mia risposta, in modo da permettere al t.o. di organizzare quanto necessario in base alla mia scelta.

 

continua...

 

Nella Valle dell'Omo - I

Nella Valle dell'Omo - II

Nella Valle dell'Omo - III

 

ESPERTO: Viaggi etnografici e alternativi

Roberto CORNACCHIA

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