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Il deserto del Kalahari - III

Diario di un viaggio in un ecosistema unico

 

...segue

 

11° giorno 

Sveglia ben prima dell’alba per un game drive che però come ormai prevedibile non ci permette di veder nulla, poi durante colazione siamo invasi da buceri particolarmente ostici. Smontiamo il campo in tutta fretta e prendiamo la via per Deception Valley, la zona più conosciuta del Kalahari anche per via delle lunghe e celebri ricerche che qui vi fecero Mark e Delia Owens su iene, leoni ed altre specie del posto, da cui scaturì tra i tanti libri specifici anche il più noto "Il Grido Del Kalahari", base per ogni conoscenza desertica di qui. Ma per arrivarci il cammino è lungo, nella prima parte il sentiero è tutto su sabbia cedevole, si procede molto piano, mancano però dune emozionanti da rimirare e solo la perizia di uno degli autisti riesce a scorgere un branco di leoni che si riposa nel mezzo di sterpi. Il colore di questi animali è perfetto per mimetizzarsi, fortuna che sono veramente grossi e così ben indirizzati da esperti riusciamo a scorgerli, anche se ovviamente al minimo rumore percepito pian piano si allontanano, non è tempo di caccia ma di riposo questo. Dopo 80 km, usciti dal sentiero su sabbia il Kalahari si apre lungo Deception Valley e con la vista che spazia possiamo far sosta per il solito pranzo al sacco nei dintorni del Piper pan, tra il vuoto intervallato da qualche grande albero sotto al quale si riparano a riposarsi springboks, orici e gnu, mentre i kudu pian piano si spostano per non dare riferimenti a probabili predatori. Circumnavighiamo il Deception Pan, di dimensioni ben maggiori dei pan visti nel Kgalagadi, per far tappa a una della piazzole del Kori Camp dove abbiamo una riserva per il primo giorno al n° 2 e per il secondo giorno al n°4, dopo aver rimediato a qualche foratura. Ovviamente cercheremo di evitare il trasferimento, notando come l’area riservata a noi è già occupata da una coppia olandese che apprenderemo in viaggio da 10 mesi, partiti da Port Fuad in Egitto con termine viaggio della loro jeep a Maputo in Mozambico (da dove rientrerà via nave) mentre per loro Johannesburg dove troveranno l’aereo per casa. Dimostreranno di apprezzare notevolmente la nostra pasta al pesto e altre piccole cose che abbiamo in dispensa, mentre ci narreranno del loro peregrinare in zone ancora controverse dell’Africa, come il Sudan, ora tranquillo il nord pericolosissimo il sud, oppure il Congo dove  trovare gli ultimi gorilla di montagna in un parco sperduto e accessibile solo via Uganda (a costi non proprio ristretti). Nel camp non ci sono servizi ma si trovano due separé, uno con buca per i bisogni, l’altro con possibilità di appenderci una doccia da campeggio, ma nonostante la temperatura sia buona occorre muoversi prima che il sole tramonti altrimenti non la si può godere appieno. Percorsi 167 km, di asfalto neppure una briciola.    

 

La "pista" che porta verso Kubu Island

 

12° giorno

Dato che oggi non sposteremo il campo, posticipiamo la colazione ma così facendo, col sole già alto, siamo sotto assedio dei buceri in maniera incredibile, conquistata a fatica la colazione partiamo a visitare la zona centrale del Kalahari con prima meta il Sunday pan, enorme, bianco e col vento che spira coperto da uno strato di polvere che rende il luogo ostico oltre il reale. È probabilmente la visione più bella ed intensa di questo deserto al vero non entusiasmante nel suo complesso, tanti animali che sembrano anche loro particolarmente perduti, che provano a spostarsi di pozza in pozza sperando in una pioggia che per mesi non arriverà, nascondendosi sotto a piccoli alberi piantati in un terreno che pare un misto di sabbia e sale. Da qui andiamo al Leopard pan, ma come prevedibile di leopardi nessuna traccia, solo un grandissimo passaggio di springboks, avvicinabile più che altrove. Su di un sentiero difficile da percorrere perché pochissimo battuto rientriamo al campo per un pranzo ormai da copione (affettati e formaggi) e dopo un po’ di relax improvvisato prendiamo la direzione contraria verso Deception pan perdendoci più volte. Avvistiamo da vicinissimo branchi di orici e kudu che si danno il cambio a una pozza, ma come prevedibile niente predatori. Tra l’attesa e lo sbaglio di percorso arriviamo al campo quando il sole non si scorge più e questa sarebbe regola da non trasgredire, gli autisti sono dispiaciuti di questa situazione, poi al campo riusciamo a convincere quelli che dovevano pernottare nella piazzola ad andare a quella a noi spettante, così da evitare definitivamente lo smontaggio e rimontaggio del campo. Acconsentono, forse non proprio contenti, anche se in realtà significa per loro fare il campo a 200 metri di distanza in un luogo simile a questo, niente c’è qui e niente ci sarà nell’altro. Cena come atto conclusivo della giornata, temperatura non dico gradevole ma possibile rimanere fuori dal sacco a pelo per più tempo, meglio nelle vicinanze del fuoco. Percorsi 165 km, anche se siam rimasti nello stesso luogo a pernottare, e fatti tutti su percorso poco agevole

 

La surreale Kubu Island, un promontorio pieno di baobab circondato da una distesa di sale

 

13° giorno

Di buon mattino sveglia e colazione così da non essere obiettivo privilegiato dei buceri, poi smontato il campo partiamo con destinazione Matswate gate da dove usciamo definitivamente dal Central Kalahari Game Reserve dopo 40 km di pista, dopo poco inizia l’asfalto e muoversi diventa più semplice. Facciamo sosta a Lethkane dove - dopo aver riparato alcuni pneumatici, fatto un minimo di spesa, rabboccato serbatoi, taniche e scorta di acqua - ci regaliamo un pranzo al ristorante Sachama che non avrà una scelta infinita ma serve piatti caldi e per una volta sembra quasi un lusso. Ma si riparte velocemente, la meta finale è lontana e non si raggiunge su strada in asfalto, che lasciamo subito dopo Mmatshumo, scendendo in una distesa salata dalle grandi dimensioni. Sono più parti di vecchi fondali marini, nessuno raggiunge l’ampiezza del Salar de Uyuni (e nemmeno la bellezza di quel paradiso sulla terra) ma nell’insieme lo superano, la via per raggiungere Kubu Island è lunga, iniziato l’attraversamento del primo mare di sale si arriva al reticolato impiantato per le difese veterinarie che hanno però lasciato sul terreno tanti animali morti, dove occorre esibire il permesso per procedere, da qui si passa tra sale e sabbia e solo dopo almeno 30’ si scorge in lontananza l’ex isola di Kubu, nota come l’isola dei baobab perché da questi giganteschi alberi rossi è ricoperta. La vista da lontano nel mezzo del sale è probabilmente lo spettacolo più bello visto in questo viaggio, una volta raggiunta il fascino aumenta ancora. Prendiamo possesso della piazzola a noi riservata, come al solito non c’è nulla se non una minuscola tazza attorniata da assi decrepite, ma vista la collocazione e l’orario decidiamo di montare il campo in seguito e salire immediatamente alla sommità dell’isola per ammirare il tramonto. Già, ma perché isola? Fino al 1500 c’era tutto attorno l’acqua e quindi era un’isola vera e propria, ma ci viene riferito che durante la stagione delle piogge può essere che la situazione si replichi. In questo momento l’acqua è l’ultima delle cose ipotizzabili nel luogo, dall’alto la vista che spazia in ogni dove verso le distese di sale illuminate dal sole al tramonto coi baobab a delimitare il contorno dell’isola è una spettacolo favoloso, un luogo particolarmente new age, disturbato solo dalle continue urla di una comitiva tedesca che ha abbondato con le latte di birra. Zittiti a urlacci scendiamo solo quando il sole è da tempo dietro l’orizzonte per montare il campo con la luce delle torce mentre l’inserviente del parco passa a controllare la prenotazione e il pagamento che deve essere fatto tassativamente in precedenza (via internet, ma i tempi di risposta sono africani, meglio muoversi in anticipo), a ogni comitiva è assegnata una piazzola, indipendentemente da quante persone e mezzi abbia ogni comitiva. Cena al campo, iniziando a far conto di quanto abbiamo in dispensa (che sarebbe lo spazio sotto alle panche del camion), iniziando a regalarci qualche prelibatezza in più. Temperatura buona per un deserto, ma notte particolarmente ventosa, non ci sono gli animali a muovere la tenda ma ci pensa il dio Eolo. Percorsi 270 km, buona parte su asfalto, l’altra parte non difficoltosa per il fondo ma per la navigazione da compiere, i navigatori hanno ben riportato il posto ma i sentieri cambiano ogni volta che terminano le piogge e quindi si procedete a vista, coi poveri navigatori che ripetono all’infinito il ricalcolo del percorso che non c’è ma va improvvisato.  

 

Una mantide su un cactus, Tshitane Pan

 

14° giorno

Sveglia 30’ prima dell’alba, al buio iniziamo a salire sul promontorio di Kubu Island ma ci rendiamo conto ben presto che il primo giorno con le nuvole lo incontriamo proprio oggi qui dove potremmo goderci un’alba fantastica. E così i colori rimangono spenti, il sole non ci regala la sua palla colorata african style che in questo scenario sarebbe stato spettacolare, a questo punto meglio farsi un bel giro a piedi dell’isola e inoltrarsi nel mare salato che starsene ad attendere qualcosa che non avverrà, una mesta colazione e smontato il campo per l’ultima volta, riattraversiamo il mare di sabbia dove su di un piccolo e largo cactus fa bella mostra di se una mantide, usciamo dal Makgadikgadi National Park dirigendoci a sud lungo una buona strada asfaltata verso il Khama Rhino Sanctuary che raggiungiamo dopo lo spuntino di pranzo consumato a fianco della strada. Il santuario dei rinoceronti è stato creato per preservare questa specie animale che in Botswana era in via di estinzione, quando fu istituito rimanevano tre rinoceronti bianchi e uno nero, grazie ad alcuni arrivati dal Sud Africa per cercar di riprodursi ora si è arrivati a 41 bianchi e 4 neri. Il grande parco (circa 4500 ettari), come tutti i parchi veri e propri in Africa, ha costi enormi, la possibilità di accoglienza di vario tipo e la certezza di vedersi determinati tipi di animali, perdendo il fascino selvaggio del Kalahari certo, ma che alla lunga ha stancato visto anche l’aspetto ripetitivo e anonimo di quel tipo di deserto. Per entrare al santuario si pagano 50 p, per l’alloggio in dormitori da 6 letti con bagni separati 90 p, il giro in jeep per il parco 120 p, ma ne vale la pena. La guida e autista, Muwanba, illustra tutti gli aspetti del luogo, sa dove si muovono i rinoceronti e finiamo per vederne un numero molto elevato presso alcuni abbeveratoi dove si danno il cambio con zebre e impala. Nel parco ci sono 6 leopardi, dei quali scorgiamo solo le impronte, introdotti per regolare il ciclo vitale del luogo, a breve verranno introdotti anche i leoni per i quali stanno studiando come procedere, rientrati dall’escursione è tempo per una doccia calda e poi cena presso il ristorante del centro visitatori, con prezzi tutto sommato abbordabili visto che in realtà le alternative non esistono. È possibile portarsi le proprie bevande, non fanno storie, il servizio è ovviamente molto lento, ma altro da fare qui non c’è. Percorsi 265 km, quasi tutti su asfalto.  

 

Rinoceronti e Impala presso il Khama Rhino Sanctuary

 

15° giorno

Anche questa mattina sveglia ben prima dell’alba, abbiamo il walking safari (evitare di vestirsi con colori sgargianti) da compiere, in jeep raggiungiamo un posto nel parco dove ci son tracce recenti di rinoceronti e a piedi, controllati da due guide armate (una è quella del giorno precedente che ammette di chiamarsi Rafael, ma dice che Muwanba fa molto più Africa selvaggia e gli vien utile a rimorchiare turiste di passaggio…) ci inoltriamo nel territorio alla ricerca di questi grossi animali dalle sembianze di dinosauri. Ci illustrano le differenze tra rinoceronti bianchi e neri (questi ultimi hanno una bocca differente, che permette di mangiare non solo erba a terra ma anche foglie sulle piante), distinguibili in primis dalla feci, che in Africa sono fondamentali per capire che tipo di animale si stia seguendo. Non sono aggressivi, ma possono avere reazioni scomposte quando i piccoli si avvicinano troppo, altrimenti se ne vanno da soli, scappando a velocità sorprendente. Riusciamo ad avvistare una madre col piccolo a qualche decina di metri di distanza e in effetti appena il piccolo cerca di avvicinarci, probabilmente per curiosità, la madre ne devia il percorso e cerca di allontanarlo il più possibile. In seguito uno enorme si avvicina padrone assoluto del territorio, le guide ci dicono di non spaventarci, ma è talmente vicino che col teleobiettivo montato non riesco ad immortalarlo per interno, devo accontentarmi di primissimi piani del preziosissimo corno! Rientrando in jeep scorgiamo anche qualche giraffa, ma son quasi le 8 di mattina, una colazione velocissima e poi usciamo dal Khama Rhino Sanctuary, costosissimo ma molto interessante ed emozionante, ora ci aspetta un lungo trasferimento con attraversamento del confine tra Martins Drift in Botswana e Groblesburg in Sud Africa, lungo il fiume Limpopo. Le pratiche sarebbero veloci e semplici se non fosse per un problema tecnico col software dei pc per le registrazioni che ci fa perder tempo nel lato SA, da qui arriviamo nei dintorni di Thabazimbi dopo esser passati a fianco di verdi montagne ma anche favelas come in Botswana non avevamo incrociato. Girando a lungo troviamo il Mongatane Lodge, posto veramente splendido, molto meno la grande sala che la proprietaria ha addobbato con innumerevoli animali imbalsamati. Aveva un gran orgoglio nel mostrare tutta fiera una iena, non capivo come potesse essere in casa, poi vedendola in quello stato ci son rimasto assai male, ma evidentemente qui è pratica comune. Il posto ha a disposizione un enorme barbecue, andiamo a comprarci il cibo che desideriamo in città e ci godiamo una cena pantagruelica con uno degli autisti a grigliare qualsiasi tipo di carne e verdura. Percorsi 395 km, notte in lodge fantastico, un appartamento nemmeno tanto mini.

 

continua...

 

Il Deserto del Kalahari - I

Il Deserto del Kalahari - II

 

BLOGGER

Luca COCCHI

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