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Un mese in Birmania - V

Diario di un lungo e approfondito viaggio in Myanmar

 

segue... 

 

17° giorno

Colazione in hotel al chiuso, scongiuriamo il freddo che durante la notte non si è paventato anche grazie a 2 grossi panni in dotazione, oggi giornata di escursione a piedi nei dintorni, Kalaw è la capitale del trekking del Myanmar, possibilità di ogni tipo da un giorno a una settimana, la più battuta è quella che in tre giorni porta al lago Inle. Noi optiamo per esplorare le montagne a nord, passando per villaggi di etnie distinte. La guida, un anziano con cui ci siamo accordati, pare conoscere tutti, avanza lentamente salutando dal primo all’ultimo che incontra, sarà una gita a passo lentissimo, si prevede immediatamente, aggiriamo Kalaw passando da ovest, il sentiero stringendosi sale gradatamente senza nessuna indicazione, comprendiamo come la guida sia fondamentale per quest’aspetto più che per illustrarci i luoghi. Scendiamo una stretta valle interamente coperta da alberi di arance, la popolazione è tutta intenta a raccoglierle trasportando agganciate alla testa grandi gerle in modo da muoversi là dove i mezzi non arrivano nel mezzo dei filari a strapiombo delle montagne. Un arcaico camion fa la spola da qui nel mezzo del nulla al villaggio Paduang di Pain Ne Pin sulla vetta di una montagna. Questa popolazione dedita all’agricoltura coltiva piante ma non campi, una differenza con quella che vedremo in seguito. Le donne del posto separano le foglie di the in ogni dove oppure puliscono agli, l’intero paese è una manifattura all’aperto per queste operazioni, qui alle 11 la guida vuole già far tappa per pranzo presso una grande abitazione che funge da ristorante. Oggi però lo stretto spazio è utilizzato da una famiglia olandese allargata (specie di bed & breakfast organizzabile da Kalaw), così ripieghiamo su quanto la guida si era portata al seguito, specialità indiane vista anche la sua origine. Continuiamo l’escursione aggirando la montagna per giungere ai campi coltivati nei dintorni di Myin Ka, un villaggio Danu dove molte cose cambiano. Intanto questa etnia lavora a fondo i campi usando i bufali come trattori, i colori degli abiti virano sullo scuro e il paese è praticamente disabitato: se i primi ne stanno approfittando per invogliare gli stranieri verso un’esperienza bucolica nei loro luoghi, in questo secondo villaggio si fatica ancora fuori di casa. Gli spazi comuni attorno all’antico monastero di legno del XVI secolo sono terra di conquista dei bambini che giocano ad una specie di nascondino liberi dagli occhi degli adulti. Da qui prendendo il sentiero a destra del monastero, la strada s’inerpica al punto più alto dell’escursione da dove si possono vedere montagne verso nord-est con in vetta ad ognuna la più classica delle pagode dorate, immancabili. Scendiamo per un lungo ma tranquillo sentiero che rientra a Kalaw dal lato opposto rispetto alla partenza, dovendo più volte attendere la guida che pare stremata, nonostante lungo il cammino abbia chiesto uno strappo a un trattore di passaggio. Una volta in paese, dopo aver assistito alle sfide degli anziani alla dama cinese su “campi” predisposti attorno al mercato centrale, facciamo tappa al Cyber bar dove c'è una connessione a internet lenta come al solito. Per cena vorremmo tentare un ristorante nepalese che attrae la maggioranza dei viandanti, ma è tutto esaurito per l’arrivo di un gruppo organizzato, così spostandoci di poco ci rifugiamo al Min Thi Ha, qualità non eccelsa e al solito quasi nessuno mangia ma molti se ne stanno in visione delle partite. Il freddo si prende possesso del luogo, dove le luci si spengono molto presto, unici segnali di vita sulla via principale dove fanno sosta i bus notturni per nord e sud del paese.

 

Venditrici alla stazione dei bus di Aung Mingalar

      

18° giorno

Colazione in hotel dove lasciamo gli zaini e poi con le indicazioni impartite dalla proprietaria ci dirigiamo verso Pindaya. Saliamo su di un local bus destinazione Aungban che parte in centro all’angolo della Paya. Quando scendiamo, come prevedibile, siamo assaliti da taxisti che ci chiedono una fortuna per portarci alle grotte di Pindaya. L’attesa e il disinteresse nei loro confronti ci permette di entrare in empatia con gli abitanti del posto che ci consigliano di rivolgerci ai conduttori di motocarrozzette, dopo lunga discussione uno accetta i nostri 15.000 k e partiamo, ben coperti perché la temperatura non è ancora salita e viaggiamo praticamente all’aperto. Lo spostamento dura 90’ e non è visivamente interessante, prima di giungere al paese vero e proprio si dovrebbe pagare un biglietto di accesso ma il nostro driver se ne infischia e sfreccia imperterrito di fronte all’entrata. Il grande lago verde che sottostà alla montagna fa da sfondo a un paese che vive dell’attrazione turistica rappresentata dalle grotte stracolme di statue del Buddha, lago in cui si fa ogni cosa, ci si lava e si lavano stoviglie e indumenti, fonte di vita primaria. La motocarrozzetta raggiunge l’ingresso pedonale, si potrebbe salire lungo scalinate coperte in mezzo a infinite bancarelle, ma non c’è data possibilità di scelta e così arriviamo alla meta velocemente, anche perché in questo modo il conducente dovrà attenderci per un tempo minore. L’ingresso costa 3.000 k, ai quali vanno aggiunti 300 k per foto o riprese, di fatto obbligatori. Visita interessante più per lo scenario delle grotte stesse con alcune belle stalagmiti che per le solite statue che paiono sempre appena terminate. La montagna regala anche possibilità di ulteriori escursioni verso minuscoli villaggi nella zona superiore, dove gli abitanti si recano ancora a prendere acqua da un lago trasparente con ogni possibile recipiente, tutti agganciati a un lungo bastone che funge da “camion” manuale. Laggiù in basso, il lago fa bella mostra di sé, attorno al quale pullula la vita del posto dove chiediamo di far tappa a uno dei tanti ristoranti per assaporare il clima locale, fatto di tanti giovani che si spostano ancora in bicicletta a differenza dei luoghi visti in precedenza dove lo scooter la fa da padrone, tra gruppi di pagode che sorgono come funghi ovunque si guardi. Riprendiamo la via del ritorno caricando lungo la strada alcune persone che si stupiscono nel condividere questo mezzo assieme a stranieri, la conversazione latita perché a parte le più banali parole imparate in birmano altro da scambiarci non abbiamo poiché loro solo quello parlano. Arrivati ad Aungban e chiesto lumi relativamente ai bus per Kalaw, taxisti e motociclisti ci dicono che non ce ne sono più, ovviamente sappiamo della falsità perché questa tratta l’avevamo già percorsa 2 giorni addietro proprio in bus, ma il solito personaggio locale fa di più, ferma il primo camion di passaggio e ci fa salire sul cassone dove già stazionano una decina di persone. Il cassone è particolarmente comodo perché ricoperto da tavole di tek e ampie casse che fanno da schienale, così il trasferimento come se fossimo già indigeni diventa un bel momento di condivisione di tempo e spazio, per la stessa cifra pagata all’andata, senza nemmeno discutere più di tanto. A Kalaw è giorno di mercato, così il tempo che abbiamo da far passare per attendere il bus della sera lo impieghiamo qui, in mezzo a colori e odori intensi, macellai che squartano animali davanti ai nostri occhi e pescivendoli che rifilano enormi pesci di acqua dolce con interiora che diventano preda di cani e gatti. Cena da Sam’s per un delizioso pasto indiano, poi recuperiamo gli zaini in hotel dove gentilmente ci permettono di utilizzare i bagni e di attendere al caldo l’arrivo del bus notturno destinazione Yangon. Il biglietto del bus lo avevamo comprato in anticipo, scegliendo quello più comodo: larghe poltrone reclinabili fornite di coperte, acqua, dolci per colazione, insomma un viaggio extralusso per far sì che la notte non ci pesi, peccato solo che la prima parte si svolga in montagna tra un continuo di curve e dormire non sia così semplice. I bus notturni che passano da Kalaw sono un numero impressionante, da Taunggyi di sera partono sia in direzione sud sia nord, sono gli stessi che ci hanno venduto i biglietti dall’agenzia lungo la via principale ad indicare su quale salire, il tutto al volo perché la sosta è velocissima.

 

La grandiosa Shwedagon Paya di Yangon

 

19° giorno

Scesi dalle montagne la strada spiana e si raddrizza, così si riesce a dormire o meglio sonnecchiare, però prima dell’alba siamo già all’ingresso di Yangon, non più capitale del Myanmar ma la città più grande e riferimento per ogni cosa. Prima di entrare alla stazione dei bus di Aung Mingala a nordest, c’è una lunga attesa, percorse le poche centinaia di metri mancanti scendiamo nel mezzo di una scassatissima, sporca, incasinata e inefficiente stazione dei bus, per essere la più grande del paese colpisce e alla grande, in negativo. Non c’è un’indicazione traslitterata, non c’è nessuno cui chiedere informazioni, gli unici sono i personaggi che fanno da procacciatori di passaggi per il centro, alla lunga troviamo dove comprare un biglietto per il giorno successivo, poi fermiamo un taxista che ci porta verso un hotel scelto sulla guida in pieno centro, dove lasciamo gli zaini per partire subito all’esplorazione della città. Poiché qui ritorneremo per il volo d’uscita, decidiamo di visitare in giornata la parte monumentale lasciando quella dei mercati al rientro per non portare al seguito gli immancabili acquisti, così dalla nostra centralissima posizione partiamo dai grandi palazzi attorno al Mahabandoola Garden, sede dei poteri forti dello stato, anche se i ministeri son stati spostati nella nuova capitale a Nay Pyi Daw nel 2005. Di questa città sorta nel nulla in mezzo alla foresta non si sa niente, nessuno dei tanti viaggiatori incontrati ci ha messo piede, difficile da raggiungere e non si sa bene cosa vedere senza niente di tradizionale e caratteristico, non si sprecano giorni dei già tirati 28 concessi nel paese così da rimanere per tutti un mistero, forse quello che la giunta militare si augurava una volta costruita e aperte le frontiere. Il Mahabandoola Garden fa da sfondo a uno dei luoghi simbolo di tutta Yangon, che divide il proprio stradario a partire da qui, la Sule Paya. Costruita nel mezzo di una rotonda è meta di continue peregrinazioni degli abitanti stante anche la facilità nel raggiungerla, fa un po’ senso visitare questo luogo schivando le botteghe al suo interno come i nuovi e fiammeggianti bancomat in concorrenza coi tanti negozi cambiavalute e banche. Da qui prendiamo a nord per raggiungere la vetta della Sakura Tower dove all’interno dello Sky Bar si gode il miglior panorama della città, ma fanno da contraltare prezzi in stile occidentale, un caffè 3 $. Da qui ci immergiamo a piedi lungo le vie della città per scoprirne i posti più caratteristici come la stazione ferroviaria, che pare ancora essere rimasta al tempo degli inglesi. Lasciato sulla destra lo stadio nazionale, ovviamente intitolato ad Aung San padre di Aung San Suu Kyi ed icona nazionale, dove l’enorme scritta Myanmar non riporta il nome della nazione ma la sponsorizzazione della birra, arriviamo al parco attorno al lago Kandawgyi attraversato da grandi passerelle perché i bordi interni sono ora di proprietà degli alberghi che lì si affacciano. Da qui ci inoltriamo nella zona delle ambasciate dove sorge il Bogyoke Aung San Museum, la favolosa casa dove l’autoproclamato generale e la famiglia vissero. Non si può fotografare all’interno della casa ma nel cortile sì, ricostruita tra foto, mobili e memorabilia la storia del travagliato secolo recente del Mynamar dove la figura del generale emerge tra qualche contraddizione di troppo. Ma qui nel descriverne il percorso attuato per portare il paese all’indipendenza, servirebbe uno spazio troppo esteso viste anche le innumerevoli giravolte politiche attuate nel corso della seconda guerra mondiale. Attraversando la città verso ovest. notiamo come sia facile imbatterci nel cosiddetto ciba di strada, è semplice, pratico e veloce mangiare decisamente bene con 1.000 k, con 500 k si può approfittare di frutta di ogni tipo. La prossima metà è la più nota dell’intero paese, la Shwedagon Paya, la pagoda dorata che fa da simbolo al Myanmar. Sorge su di un’area particolarmente estesa, arrivando da est si percorre un largo viale dove altre pagode diventano nulla in confronto, sempre dietro alle bancarelle che vendono cibo e souvenir, molto meglio scegliere l’ingresso da ovest dove poter attraversare un bellissimo giardino, anche se quello maggiormente scenografico è quello a sud. All’ingresso assieme al biglietto viene fornita la mappa della pagoda, mentre tutto intorno alla base ci sono distributori gratuiti di acqua, la sacralità del luogo è però ridotta ai minimi termini da ogni tipologia di attività commerciale, tra uno stupa e una campana compaiono negozietti o bancomat (ma non dovevano mancare in Myanmar?) così la grande attrattiva si svuota di fascino, fascino che però recupera quando il tramonto s’impadronisce del tutto. Un’aria magica s’innalza sul luogo, il fiume di gente inizia a tranquillizzarsi, anche i monaci paiono meno hollywoodiani e più in sintonia col contesto. Proprio ora le luci, i colori e le fragranze della Shwedagon si riscattano da una prima visione che pareva un rimando alla Gardaland o Mirabilandia nostrana. Rientriamo nel centro storico lungo la Shwedagon Pagoda Rd, dovendo prestare particolare attenzione ai marciapiedi, le vie sono parzialmente illuminate e i marciapiedi spesso presentano grandi buche dove caderci dentro è un attimo. Effettivamente come ci era stato detto, è pericoloso girare di sera a Yangon, nessuno ti farà nulla, ma occhio ai crateri lungo le strade! La zona indiana a ovest della Sule Paya è un brulicare di vita, qualsiasi cosa cerchiate qui si può comprare lungo la via, non sono tanto i negozi a essere presi d’assalto quanto le bancarelle, così mentre i tantissimi negozi di telefonia son quasi tutti vuoti le bancarelle coi medesimi prodotti sono assalite. Qui il mercato è diviso in parti uguali tra Samsung e Huawei, gli altri costruttori sono ai margini, vero però che tutti esibiscono gli smartphone più avanzati a fianco del cellulare base di Nokia, regolarmente usato per telefonare… Gli antichi palazzi coloniali del centro, sovente decadenti all’inverosimile, sono le costruzioni col maggior fascino della città, alla faccia delle numerosissime pagode. Per noi sarebbe l’ultimo giorno del 2013, ma qui interessa poco, così la nostra ritardata ricerca di un ristorante per la cena ci mette a rischio di non trovare nulla, rimediamo in una bettola del popolo lungo la 38a a fianco della Puja Mosque. A servirci uno stormo di ragazzini felici e festanti, il lavoro minorile è un fatto che andrebbe chiarito sotto molteplici aspetti almeno in questo ristorante, non è facile intenderci sui piatti ma la qualità elevata, in una confusione totale, come se tutta Yangon avesse deciso di cenare tardi qui. Alle 21:45 pare esserci già il coprifuoco, come a Mandalay la città diventa un deserto, a differenza dei luoghi visitati in precedenza la temperatura serale si mantiene buona e non solo non necessitiamo di pile ma nemmeno di una felpa. Occasione per festeggiare il cambio di anno non ne abbiamo, così andiamo a riposarci in vista di una levataccia per l’indomani.

 

Veduta dell'area del marcato di Mawlamyne

 

20° giorno

Alle 5:45 il taxista del giorno precedente è già pronto a riportarci alla stazione dei bus di Aung Mingalar, nella confusione generale di questo non luogo ritroviamo il banco dove avevamo acquistato i biglietti e visto l’anticipo lasciamo gli zaini per trovare una colazione che per una volta ci permette di evitare le solite uova. Caffè in un ristorante/officina e muffins comprati da una rivendita a fianco, è già tempo di prender posto sul bus destinazione Mawlamyne o Moulmein, cittadina principale dello stato Mon, anticamera per la stretta e fascinosa striscia di terra che va a sud lambendo il Mar delle Andamane, da poco aperto agli stranieri. Alla stazione dei bus di Yangon le scene pittoresche si moltiplicano, su tutte un venditore di cibo che sulla ruota posteriore ha installato un portapacchi con una brace per carbonella dove tiene in caldo specialità locali, la gomma ne godrà notevolmente. Il viaggio scorre lento tra scenari che variano a più riprese, pian piano si entra in un territorio decisamente meno battuto, più persone ci guardano curiose mentre salgono e scendono dal bus che non ha un orario preciso, dipende tutto dal flusso di avventori e dalle attese di cospicui carichi da imbarcare. Oltrepassato il lungo ponte sul fiume Thantwin (chiuso di notte, verificate di arrivare prima che chiuda altrimenti occorre attendere) che prima della meta finale è più mare che fiume entriamo a Mawlamyne, la nuova stazione dei bus si trova a sud del centro e una volta scesi siamo assaliti da portatori che quasi si picchiano per poterci accompagnare in una delle poche strutture atte a ospitare stranieri. La prima opzione ha posto solo in anguste celle di legno ma è il fulcro delle attività turistiche del luogo, così su consiglio di due ragazze già pratiche del posto optiamo per una guest house di fronte agli attracchi dei traghetti a ridosso del mercato di strada. Riusciamo a farci “personalizzare” la camera e ci godiamo la vista di un tramonto favoloso su questo tratto di mare chiuso dalla grande isola Bilu Kyun. Ritmi rilassati, ci godiamo la confusione del mercato serale che sorge nei paraggi della grande prigione, il prolungato black-out ci fa scegliere per cena il ristorante della nostra guet house, illuminato e dalla scelta varia ma con un servizio lentissimo, non abbiamo molto altro da fare e ci immergiamo nel clima del sud notando come qui i gruppi organizzati ancora non arrivino, la presenza straniera è ridotta all’osso e tutto ruota attorno alle attività tradizionali.

 

continua...

 

Un mese in Birmania - I

Un mese in Birmania - II

Un mese in Birmania - III

Un mese in Birmania - IV

 

BLOGGER

Luca COCCHI

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