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Un mese in Birmania - I

Diario di un lungo e approfondito viaggio in Myanmar

 

1° giorno 

In una giornata di metà dicembre con un Frecciarossa da Bologna raggiungiamo Milano da dove con il Malpensa Shuttle raggiungiamo l’aeroporto di Malpensa. Ora c’è anche il treno che raggiunge Malpensa, ma il tempo è il medesimo, costa di più e le partenze non continue come coi vari shuttle che fanno base all’uscita della stazione. L’aeroporto è deserto, al check in della Oman Air la coda è lunga ma scorrevole, ai metal detector non c’è nessuno come al controllo passaporti (per una volta controllano che ci sia e sia stata annullata la marca da bollo) e in un attimo siam pronti per l’imbarco, puntuale. Partenza destinazione Muscat, capitale dell’Oman e ovvio hub per la compagnia di bandiera. Il solito ottimo servizio di bordo inizia a operare con salviette cade, bevande e stuzzichini prima della cena vera e propria. Ogni poltrona è dotata di schermo personale con ingresso usb, forniscono oltre alle cuffie anche il comfort kit, cosa rara sui voli di compagnie occidentali. Cena alla carta poi le luci si abbassano per chi tenta di dormire, per chi vuole tra giochi elettronici, film (anche in italiano) e diavolerie varie non c’è modo di annoiarsi. Temperatura non elevata, la coperta regolarmente fornita viene utilizzata.

 

Turisti in Khao San Road, Bangkok

 

2° giorno

Atterriamo nella capitale dell’Oman in perfetto orario, i lavori nei dintorni dell’aeroporto paiono sempre intensi, ma il nuovo terminal in costruzione da qualche tempo non è ancora completato, la temperatura è prossima ai 30° ma non abbiamo occasione di starcene all’aperto perché occorre passare le operazioni di dogana velocemente e raggiungere l’imbarco per Bangkok dove, dopo aver nuovamente mangiato diverse volte, atterriamo in perfetto orario. Il ritiro del bagaglio è immediato e tiriamo un grande sospiro di sollievo, visti i tempi strettissimi (meglio, di corsa), a un bancomat della Siam Bank preleviamo (tutti chiedono una commissione di 150b, ne trovate d’infinite banche) e usciti dall’aeroporto prendiamo un taxi ufficiale per raggiungere il centro città in zona Khaosan Road, meta di tutti i backpackeristi del mondo. Troviamo alloggio presso una guest house, poi, lasciati gli zaini, usciamo subito per scaldarci nel caldo della capitale thailandese, al solito stracolma di gente di tutto il mondo Per cena una delle tantissime bancarelle lungo Th Rambutri, è già sera, il sole calato da ore ma il caldo è ancora elevato, sarà lo sbalzo dal freddo di casa ma la differenza è forte. Come al solito a Bangkok par di incontrare l’intero occidente qui in vacanza pronto a partire per le infinite mete sudorientali, i prezzi per ogni tipo di spostamento rimangono invariati negli anni.

 

La candida Hsibyume Paya

 

3° giorno

Colazione in hotel, poi con uno shuttle prenotato raggiungiamo l’altro aeroporto di Bangkok, Don Meaung, base logistica di Air Asia, il più diffuso vettore low cost del sud est asiatico. Check-in automatico già fuori dall’aeroporto, pratiche velocissime e volo per Mandalay puntuale dove atterriamo in un aeroporto nel mezzo del nulla, vuoto assoluto, sicuri che il Myanmar sia aperto ai viaggiatori indipendenti? Le formalità doganali sono velocissime (c’è da dire che a parte il nostro volo nessuno era presente), i bagagli son già stati scaricati dal nastro trasportatore e si esce nell’atrio principale dove i taxisti fan la corte ai nuovi arrivati. Il tempo di prelevare a un bancomat (sì, funzionano con normali carte Cirrus/Maestro, ne ho la prova!) e usciti andiamo incontro alla prima bella sorpresa. Air Asia mette a disposizione dei suoi clienti un free shuttle, l’aeroporto dista 45 km dalla città, strano visto che siamo nel mezzo del nulla, e così ci risparmiamo la spesa del taxi (altri servizi pubblici non ci sono). Veniamo scaricati a ridosso del fossato dell’enorme spazio attorno al Mandalay Palace, da lì dribblando il traffico di motorini raggiungiamo la Royal Guest House, da non confondersi col Royal Hotel, stessi proprietari ma costi diversi. È una specie di piccolo labirinto in miniatura, stessa cosa per le camere, bello e pieno di gente in viaggio per proprio conto, luogo ideale per recuperare info su qualsiasi cosa da farsi non solo a Mandalay ma in Myanmar in generale. Tutti offrono passaggi in mototaxi o trisaw (bicicletta con sidecar) ma decidiamo di percorrere a piedi il marciapiede che corre a fianco del Mandalay Palace, la temperatura perfetta è molto invitante, non facendo però bene i conti su quanto sia lungo questo percorso per raggiungere l’angolo a nord-est dove si trovano le pagode più importanti e l’ascesa per la Mandalay Hill la collina che domina la vallata. Una volta arrivati iniziamo a visitare le molteplici pagode, sempre scalzi (ma meglio portarsi appresso le scarpe non perché potrebbero rubarle, quello non avviene mai, ma perché più di una volta si esce da un posto diverso rispetto all’entrata), come prima tappa la Kyauktawgyi, poi la spettacolare Sandamuni tutta attorniata da centinaia di stupa bianchi, la Kuthodaw, il monastero Shwenandaw (dove per entrare occorre per forza avere il famigerato biglietto cumulativo da 10$) affascinante perchè tutto in legno e per terminare l’altro monastero attiguo, Atumashi (per impratichirsi da subito, paya=pagoda kyaung=monastero). Da qui, visto l’orario che volge al tramonto e per apprezzarlo nel modo migliore, con un taxi saliamo alla Mandalay Hill. Da qui si nota come il fiume Ayeyarwady scorra fuori città, la città sorga in una piana polverosa dove in estate il caldo può essere massacrante mentre ora la temperatura rimange perfetta per muoversi, ma le decorazioni, i numerosissimi Buddha ecc.. sono un po’ troppo scolastiche, e il tutto sorge nel bel mezzo delle bancarelle, situazione che diventerà la norma in Myanmar, il sacro a braccetto con gli affari. Una volta calato il sole la temperatura scende velocemente e la città si svuota ancor più velocemente, pare tutto deserto e ci incamminiamo verso il mercato serale che si trova lungo la 84th, nel bel mezzo della strada. Ma anche qui non è che ci siano tanti locali per mangiare, dopo lunga ricerca facciamo tappa da Daw Sin Yon (2.800k) e ci fermiamo per un caffè nell’animatissimo Kafewek, lungo la strada anche questo, tavoli bassi e sedie bassissime, siamo gli unici stranieri presenti e diventiamo l’attrazione serale. Alle 21:30 il deserto avvolge il centro di Mandalay, la temperatura ci costringe a far ricorso almeno ad una felpa, contrasto forte col pomeriggio solare.

 

Navigazione sull'Ayeyarwady

 

4° giorno

Colazione nella piccolissima saletta della guest house a base di uova - cosa che si ripeterà in ogni luogo - frutta, pane tostato con marmellata e burro, caffè o tè, succo di frutta. Raggiungiamo nel mezzo di un traffico folle di motorini il Mayan Chan Jetty per la partenza della nave per Mingun, non serve procurarsi prima il biglietto, di barche ne partono diverse tutte alle 9:00, come si sia destinati in una piuttosto che in un’altra è vago, ma poco importa. Risaliamo lentamente l’Ayeyarwady che in questo periodo è in secca e i viaggi a nord verso Myitkyna sono sospesi. Il freddo iniziale lascia spazio a una temperatura ottimale, ci si può sistemare al sole sul ponte superiore, si usano sedie e sdrai in vimini piazzabili a piacimento, tutto molto improvvisato, il relax è però immediato, ammirando campi in lavorazione e scorgendo le prime pagode dorate nella campagna. Già prima di arrivare a Mingun si scorge l’enorme basamento della Mingun Paya, mai terminata perché un terremoto devastò la zona e crepò la base, base che rimane quella della pagoda più grande al mondo, come la campana sospesa poco lontano. Qui si scorge già quale sia il mezzo di trasporto più utilizzato fuori dalle città, il carro trainato dai buoi o da un cavallo, genericamente chiamato Oscar, quindi quando vi viene proposto questo nome sappiate che di trasporto su carro si tratta. Ma Mingun può essere girata tranquillamente a piedi, tra pagode e monasteri, fino alla spettacolare Hsibyume Paya, come onde del mare che salgono bianchissime verso il cielo blu. Da lì si dipana il vero e proprio villaggio che però non presenta nulla di veramente interessante, se non una prima presa visione del Myanmar più rurale. Prima di reimbarcarci facciamo tappa a un ristorante con vista sul fiume, toccata terra a Mandalay prendiamo un pick-up per l’ingresso del Mandalay Palace (compreso nel biglietto cumulativo) dove visitiamo questo complesso che fu la residenza reale fino all’ingresso degli inglesi nel 1885 (per chi fosse interessato consiglio la lettura del libro di Amitav Ghosh Il Palazzo Degli Specchi, che ricostruito si trova qui all’interno). Molta parte non centra nulla col palazzo reale, ci sono abitazioni dei militari e spazi a loro dedicati, quanto rimane, o meglio è stato ricostruito, è al centro del complesso, tutto in legno ma chiaramente ricostruito in tutta fretta in tempi recenti. Si può salire sulla torre Nan Myint Saung dove ammirare il panorama completo del palazzo e della città. Incrociamo anche la banda militare e visto dove siamo prima di accennare una foto chiediamo se sia possibile, non solo lo è ma ne sono contenti, come apprenderemo in seguito viaggiando per più posti, la presenza militare pare ridottissima, segno di cambiamenti o di presenza dissimulata. Da qui in mototaxi facciamo un’escursione nella zona definita la cittadella dei monaci, a sudovest del centro, luogo che al tempo della rivolta dei monaci nel 2008 fu molto calda, prima però sosta alla Mahamuni Paya, per gli abitanti del luogo la più sacra, dove le donne non possono avvicinarsi alla statua del Buddha Mahamuni, proveniente dal controverso stato del Rakhaing, zona attualmente di guerra e non visitabile se non pochi e circoscritti luoghi. Gli autisti delle moto devono venirci raramente da queste parti perché non trovano i monasteri, dobbiamo farceli indicare dagli abitanti del luogo e sfruttare le nostre cartine, matita alla mano per riportare svolte varie. Riusciamo comunque a far tappa allo Shwe In Bin Kyaung, al Ma Soe Yein Nu Kyaung (dove si concentra il maggior numero di monaci della zona) e lo splendido e decadente Tingaza Kyaung, tutto in legno ed abitato da due soli monaci che paiono più due punkabestia che altro, ma ovviamente gentilissimi e disponibili a farci visitare il complesso attraverso precarie passerelle dove le tarme più volte hanno avuto la meglio sul legno. A differenza di tanti monasteri o pagode quasi tutti ricostruiti e privi di fascino, questo rappresenta un’importante eccezione, la data di costruzione del 1500 per una struttura di legno infonde un fascino unico anche se non riconosciuto dai più perché in pochi sapevano indicarci come accederci. Rientrati in guest house quando il sole è già tramontato, usciamo per cenare nel buio e quindi nel deserto cittadino, ci accomodiamo in un ristorante non lontano dalla nostra guest house.

 

continua...

 

BLOGGER

Luca COCCHI

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