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Il Vietnam delle montagne - Parte V

Diario di un viaggio alla ricerca delle minoranze etniche del nord

 

...segue 

 

10 - Rivoluzione 

Giorno uno dopo la Rivoluzione: l'itinerario viene accantonato e adesso si fa come dico io. La guida del Nord Ovest del Vietnam ormai non serve più visto che non va più a est di Bac Ha ma, grazie all'altro libro, ho fatto un elenco delle etnie ancora da vedere nel prosieguo del viaggio, specificando in quali distretti si trovano. Partiti presto, attraversiamo ancora una volta zone dai paesaggi stupendi che, addolciti dalle nebbie mattutine che da queste parti sono una costante, paiono l'ambientazione ideale di favole gotiche se non fosse per le risaie che danno quel tocco di delicatezza. Incontriamo una Dao del tipo che ho visto il giorno prima a Hoang Su Phi che sta stendendo il riso ad essicare su una stuoia: ha un copricapo ricamato in bianco e blu e i denti anneriti. Proseguendo visitiamo un villaggio di Dao Tuyen dove veniamo accolti dentro ad una casa molto grande: quello che mi stupisce è che le assi che costituiscono le pareti delle abitazioni sono sempre sconnesse e hanno parecchi spiragli: poichè non credo che, essendo in genere gli appartenenti alle minoranze etniche degli ottimi artigiani, non siano in grado di posizionarle senza fessura, presumo che sia una misura per far scorrere l'aria all'interno per evitare umidità e muffe.

 

Più avanti ci fermiamo per una sosta ad un belvedere e lì vicino c'è una casa, ancora una volta Dao, e io chiedo alla signora di mostrarmi il copricapo che tiene coperto con un fazzoletto colorato. Si toglie quest'ultimo e così ho la conferma che le Dao si radono (ha i capelli cortissimi, quasi a zero) in quanto ritengono l'assenza di peli un segno di bellezza (è per questo che spesso si radono le sopracciglia e anche parte della fronte, che poi evidenziano con i copricapi). Proseguendo tra paesaggi verticali, quasi ogni strada dà su uno strapiombo, incontriamo ancora delle Dao, i cui bambini indossano immancabilmente il cappello tradizionale che porta fortuna. Percorriamo strade che non appaiono sulla mappa, benché in buono stato. All'ora di pranzo ci fermiamo in una cittadina che nasce all'incrocio della strada con la statale che porta ad Ha Giang. Giungiamo poi ad Ha Giang, una città moderna con grandi viali ma nessun altro motivo di particolare interesse, dove per proseguire è obbligatorio farsi rilasciare presso la polizia locale un permesso per visitare il resto del distretto, piuttosto vasto e che comprende anche le aree di Dong Van e Meo Vac. Il pilota si reca presso un'agenzia locale ma è chiusa per pranzo (noi, tanto per cambiare, ci eravamo messi a tavola alle 11:00) e ci tocca aspettare che torni. Guarda caso sa perfettamente come fare a passare il tempo: si reca presso alcuni baretti all'aperto dove sa di poter trovare qualcuno col quale giocare a carte. Dopo un'oretta torniamo all'agenzia ma è ancora chiusa e allora dico al pilota che facciamo prima se andiamo alla polizia per conto nostro. Ci andiamo, devo compilare un modulo in vietnamita ma la poliziotta parla inglese e ci capiamo. In una ventina di minuti ottengo il prezioso pezzo di carta, benché alleggerito di 300.000 dong. Il permesso non viene controllato dalla polizia ma è obbligatorio da presentare ad ogni albergo del distretto. La complicazione è che viene rilasciato esclusivamente ad Ha Giang e quindi chi viene da est, cioè da Bao Lac o Cao Bang, è di fatto costretto a raggiungere Ha Giang in giornata, circa 250 km, senza contare che il Meo Vac-Dong Van richiede tempo per gustarselo appieno, che per un turista in moto è impresa al limite dell'umano.

 

Ottenuto il permesso già nel primo pomeriggio, non vedo ulteriori motivi per pernottare ad Ha Giang dove l'itinerario inizialmente prevedeva la fermata. Proseguiamo oltre e ci addentriamo nel distretto di Quan Ba, uno dei due soli distretti (l'altro è quello di Lao Cai ormai lontano) dove risiedono i Bo Y: avviso il pilota di chiedere informazioni in giro in merito. Detto fatto e ci ritroviamo in un villaggio dell'etnia che cerco. Nella prima casa in cui chiediamo informazioni c'è rimasto solo un vecchietto a casa, gli altri sono fuori a lavorare nei campi. Entriamo in un'altra abitazione e nel cortile c'è un uomo che sta costruendosi un tavolino. Chiediamo della signora la quale è un po' recalcitrante ma dopo le insistenze del pilota, che ormai pare aver capito cosa deve dire per far contento il suo cliente, accetta di mostrarci l'abito tradizionale. Entra in casa, tira fuori i vestiti della festa e li indossa, poi esce e si lascia fotografare ripetutamente. E' vestita con un soprabito nero con bordi decorati con pezzi di stoffa variopinti e anche le maniche sono riccamente decorate. In testa un turbante ricamato e al collo lunghe catene d'argento. Sono soddisfatto e porgo alla signora i classici 50.000 dong che finora ho sempre dato a chi tirava i vestiti fuori apposta per me: non se li aspettava proprio e li accoglie con un largo sorriso.

 

Riprendiamo la strada e, dopo un po', veniamo fermati da una pattuglia: stessa storia della volta precedente e stessa multa da 100.000 dong da pagare. Il pilota dice che, stando in giro 16 giorni, si aspetta che prima della fine gli capiti la stessa cosa almeno un altro paio di volte. Giungiamo a Quan Ba dove pernottiamo presso un albergo piuttosto nuovo ma col problema di avere le finestre che danno sulla strada principale della cittadina. Mentre ceniamo in un ristorante spunta un amico del pilota, si sono conosciuti quando lavorava a Sa Pa, che parla un inglese migliore del pilota e che ci invita a casa sua. "Ho amici dappertutto", chiosa tronfio il pilota. Accettiamo l'invito e così ho modo di vedere da dentro le strane case vietnamite, che si sviluppano tutte in lunghezza o al massimo in altezza visto che tradizione voleva che le tasse venissero pagate in proporzione all'ampiezza del fronte della stessa. Praticamente si entra e si va sempre avanti lungo un corridoio con le stanze che si aprono su uno solo dei lati fino a raggiungere il retro. Qui viene stesa una stuoia e ci vengono portati diversi piatti, nonostante sappiano benissimo che ci siamo appena alzati da tavola, e il solito riso di vino. Si uniscono anche la madre, la moglie, la sorella, un paio di bimbi vivaci e un gatto magrolino al quale, con l'autorizzazione del padrone di casa, ogni tanto allungo un pezzo di carne. L'amico è entrato anche lui nel business del turismo e gli dò qualche dritta per costruirsi un sito gratuito, cosa che dimostra di apprezzare. Dopo un po', forse sentitosi tagliato fuori dalla conversazione, il pilota manifesta la volontà di rientrare e quindi leviamo le tende. Appena usciti, il pilota maligna su colui che ci ha appena ospitato: lo definisce effemminato e commenta pure sarcasticamente l'avvenenza della moglie. Meno male che era suo amico...

 

 11 - Mano nella mano

Direzione Dong Van, passando in mezzo alle fredde nuvole che avvolgono queste montagne che non sono più alte di quelle che circondano Sapa. Visitiamo un villaggio Giay e veniamo accolti in un'enorme abitazione tradizionale, in stile palafitta con il piano terra senza pareti dove vengono tenuti attrezzi e macchinari. Sul grande albero di fronte alla casa ci sono delle piccionaie. Ci togliamo le scarpe per salire in casa e veniamo accolti come d'uso a suon di riso di vino: c'è un po' di gente, non so se parenti o vicini. La vita in campagna ha questo di piacevole, il tempo te lo puoi gestire, specie adesso che è inverno, e possono staccare senza dover rispettare i rigidi orari di un ufficio. Il pilota chiede alla padrona di casa se può indossare per noi gli abiti migliori. La signora ne ha un paio e chiede se vogliamo che metta il nero o il blu, io chiedo il nero perché credo sia quello più tradizionale ma dopo un po' la signora dice che indosserà il blu, perché quello nero non le va più bene (in effetti è un po' in carne). Difatti se ne esce con una mise che faccio fatica a riconoscere come tradizionale, essendo il vestito ricavato da una stoffa confezionata. Fotografo e poi porgo alla gentile signora la solita cifra, che lei rifiuta, orgogliosa.

 

Donna Lo Lo

Donna Lo Lo - Archivio Fotografico Pianeta Gaia

 

Continuando verso nord-est passiamo da Yen Minh dove il pilota vuole fare un acquisto: si vede che nell'attraversare le umide nuvole mattutine non si è divertito e quindi si compra una mantellina da motocicletta, con una parte trasparente da posizionare all'altezza del fanale anteriore. Andiamo quindi al mercato, non è il giorno "buono", ed io intanto mi faccio un giro durante il quale incontro qualche H'mong e Nung, talmente divertite dal fatto che le voglio fotografare che mi fa pensare che di turisti ne vedano davvero pochi.

 

I paesaggi lentamente cominciano a modificarsi, le montagne, da imponenti ma dai profili relativamente dolci, stanno assumendo contorni sempre più aspri e appuntiti. E' questa la caratteristica dell'area che, in un gioco di metafore con le nostre montagne, ha fatto dire ai viaggiatori precedenti che se le montagne intorno a Sapa sono le Alpi del Tonchino, le vette in questa parte del paese allora sono le Dolomiti del Vietnam. In fondo scorre il fiume e i villaggi paiono poggiarsi sui piedi di queste spettacolari vette. Ci imbattiamo in un assembramento di persone, sono H'mong Bianchi che affluiscono ad un funerale che si tiene in uno spiazzo al di là di un fosso. Dalla strada gettiamo un'occhiata, scatto qualche foto e un passante, che probabilmente manco è parente del defunto, mi chiede dei soldi per lo scatto, effettuato da alcune decine di metri. Il pilota però gli fa capire che non è proprio aria. E' zona dove dovrebbero esserci anche i Lo Lo, un'etnia dagli spettacolari costumi e dico al pilota di tenere le antenne dritte. Chiediamo a chi incontriamo per strada e tutti ci dicono "più avanti". In cima ad un passo incontriamo due attempati francesi, che stanno rifiatando dopo aver completato la salita con la mountain bike. Bravi, eh, per carità, ma siccome avevamo incontrato anche gruppi più numerosi di ciclisti mi vien da pensare: "Uno attraversa il mondo per giungere in queste lande e poi la maggior parte del tempo la passa a fare quell'attività sportiva che potrebbe fare anche a casa sua?". Sarà che a me, quando sono in viaggio, il tempo pare sempre tiranno, che i miei itinerari sono quasi sempre delle corse per cercare di vedere più cose possibile, ma mi riesce di difficile comprensione questo modo di viaggiare, a meno che uno non abbia veramente tempo in abbondanza, nell'ordine di mesi e non settimane.

 

Arriviamo ad un villaggio sulla strada principale, si chiama Sung La, chiediamo a diversi fino a quando una ragazza in jeans e giubbotto ci dice: "Io sono una Lo Lo". Le chiediamo se possiamo fotografarla in abiti tradizionali e lei acconsente e quindi la seguiamo fino a casa. E' una giovane mamma e intanto che lei, aiutata da quella che presumo essere sua sorella, si veste e ci vuole un po' di tempo, il bimbo viene affidato alle cure del nonno che lo porta in spalla nei dintorni. La ragazza finisce di agghindarsi ed esce alla luce del poco sole: l'abito è veramente bello e riccamente decorato e rende giustizia alla meritata fama di abili ricamatrici che hanno le Lo Lo. Pagate le foto, la sorella, più carina, scambia qualche chiacchiera col pilota che però, essendo ormai mezzogiorno passato, sente i morsi della fame e chiede dove è possibile pranzare. Apparentemente non ci sono ristoranti, ma seguendo le istruzioni ci infiliamo in quella che pare poco più di un'abitazione privata dove, invece, ci servono uno dei pasti che ho più apprezzato del viaggio: un mi tom caldo, ovvero noodles all'uovo in un brodo caldo con dentro due uova al tegamino. D'ora in poi lo chiederò spesso nei ristoranti dove ci fermiamo ma non li trovo più, e il sospetto che il pilota mi portasse solo nei posti dove c'era il tipo di cucina che piaceva a lui (ma non a me) ce l'ho. Davanti al ristorantino passano alcune H'mong Bianche che portano delle gerle stracolme di piante di granturco che superano tranquillamente i 3 metri: sembrano delle formichine che trasportano al formicaio qualcosa che è più del doppio delle loro dimensioni. Dopo il rinfrancante pasto torniamo alla stessa casa dove abbiamo fotografato la ragazza Lo Lo. Il pilota mi dice che anche la sorella voleva essere fotografata, senza dover pagare di nuovo.

 

Torniamo e mentre attendiamo che la ragazza indossi i vestiti, il pilota scambia il numero di cellulare e mi chiede se vogliamo pernottare presso la loro abitazione. L'homestay è una pratica permessa, anche se in teoria solo in certi villaggi autorizzati. A inizio viaggio pensavo che avrebbe potuto essere un'esperienza interessante ma, una volta sul posto, ho visto che non sarebbe stata entusiasmante come avrei voluto. A parte che le sistemazioni sarebbe state parecchio spartane, senza doccia e con i servizi nei campi (ma non è certo questo il problema), il vero problema è che mi sarebbe piaciuto farlo in un contesto veramente autentico, cioè in una casa dove tutti vestono abiti tradizionali ma spesso invece chi è autorizzato ad accogliere turisti è quello più "moderno", che ha una casa più accogliente di altri ma che sempre più spesso ha smesso lo stile di vita tradizionale. Comunque dico al pilota che a me sta bene, sarebbe comunque un'esperienza interessante e lui, tanto per cambiare, fa il gallo: ammiccando mi dice che potrebbe essere l'occasione per la sua "single night". Finito di indossare gli abiti tradizionali, la ragazza si presta a fare le foto e si dimostra più a suo agio di tante altre davanti alla macchina. E' comunque presto per cercare la sistemazione per la notte e intanto siamo nell'unico distretto dove è possibile vedere i rari Pu Peo, un'etnia che conta solo 700 componenti. "Pu Peo, Pu Peo" ripete il pilota come per memorizzare il nome, quasi pensasse: "Ma dove cavolo le tira fuori tutte queste minoranze sto qua?". Chiediamo alla ragazza se sa dove trovarle e lei ci indica di tornare indietro per alcuni chilometri fino al bivio che porta a Pho Bang, l'ultimo villaggio sulla strada che porta al confine con la Cina. Anzi, ci potrebbe pure accompagnare lei, con la motocicletta. Ma poi il pilota parte senza aspettarla, seguiamo le indicazioni, troviamo il villaggio e la solita donnina, stavolta un'anziana, che accetta le nostre richieste. Mentre si assenta per la vestizione, getto un'occhiata a questo villaggio di confine: è piccolo, non pare più ricco o frequentato di altri ma è l'unico posto in tutto il viaggio in cui vedo qualche scritta con gli ideogrammi cinesi nelle insegne dei negozi. La vecchietta esce e la immortalo più volte per la solita mancia: veste una giacca ad apertura laterale con tre strette fascie ricamate e una lunga gonna nera col bordo ricamato, sopra la quale indossa, e questo è il particolare che mi convince meno visto che non trova conforto nei costumi che risultano dalle mie ricerche, una specie di gonna aggiuntiva azzurra, peraltro in tinta col turbante. Torniamo indietro e proseguiamo verso Dong Van. Chiedo al pilota: "Ma non dovevamo pernottare a Sung La?". L'assurda risposta è: "Non hanno posto per due, solo per uno". Allora cosa ce lo avevano chiesto a fare? Boh. Intanto stiamo per arrivare nella zona clou dei paesaggi montani di Dong Van e una grande scritta sul fianco di una montagna ce lo ricorda: è da circa un anno che l'UNESCO ha inserito il Dong Van Karst Plateau nell'elenco dei Global Geoparks. Lo so che fino ad ora, in questo disordinato diario di viaggio, ho descritto i paesaggi ammirati da bordo della moto con le parole più entusiasmanti: spettacolari, imponenti, fiabeschi. Vi sembrerà impossibile ma adesso lo sono ancora di più e io ho finito gli aggettivi.

 

Giungiamo a Dong Van e ci piazziamo in un albergo centrale, nella cui hall c'è una cartina dei dintorni che compensa, in parte, la carenza di informazioni della Lonely Planet. Ormai è tardi per andare a visitare qualcosa, facciamo un giro per il centro e ci prendiamo un tè (zuccherato) presso il Cafè Pho Co, ricavato da un antico palazzo fatto costruire da un commerciante verso fine '800 in stile cinese, che io, appassionato di architettura dell'Impero Celeste, trovo essere un piccolo gioiello. Mentre il pilota tacchina le due cameriere, io mi faccio il giro completo dell'edificio, anche al piano di sopra, sicuramente suscitando il suo compatimento. È perfetto, con le sue forme semplici ed equilibrate, il legno opportunamente avizzito dalle intemperie e la corte interna quadrata sulla quale getta la sua ombra inquietante un massiccio picco roccioso. Lascio il pilota ad occuparsi dei fatti suoi e mi vado a fare un giro solitario per la cittadina: continua a sembrarmi un delitto il non sfruttare le residue ore di luce. Cammino fino a quando non raggiungo la fine dell'abitato e torno indietro, rispondendo con sorrisi ai sorrisi della gente che mi vede. Sono quasi a metà strada quando, passando su un marciapiede, due vietnamiti mi sorridono e ricambio. Uno, un piccoletto, mi porge la mano per stringermela e lo accontento. Però non mi molla più, ma non per dire, proprio letteralmente: continua a tenermi la mano e dopo un po' si incammina, parlando in un incomprensibile vietnamita, sempre tenendomi per mano. Non che sia preoccupato: lo so che in Asia, Vietnam compreso, gli amici possono camminare mano nella mano senza destare i maliziosi sorrisini che solleverebbero dalle nostre parti, però non capisco dove stiamo andando. Esce dalla strada principale e procede verso la campagna: vuole entrare in una casa, che immagino essere la sua, e presumibilmente offrirmi la sua ospitalità ma gli faccio capire che devo tornare in albergo e non insiste. Torniamo sulla strada, sempre mano nella mano e sempre con la sua cantilena incomprensibile. Vuole farmi visitare un vicolo, a dire il vero piuttosto interessante ma l'avevo già notato e visto prima e cerco di fargli capire che non m'interessa. Lui insiste, io sono irremovibile allora, forse capendo che la "luna di miele" è terminata mi lascia, finalmente, la mano. Lo saluto e torno all'albergo, dove la doccia mette la parola fine alla giornata. Di fronte all'hotel c'è un ristorante, apparentemente uno dei tanti, ma il cuoco è un precisino, evidentemente abituato ad avere a che fare con i turisti. Ha piatti più elaborati del solito, più cari ma decisamente più vicini ai miei gusti e mangio con soddisfazione dell'ottima carne con una salsa a base di miele. Per la prima e unica volta nel viaggio entro in cucina non per indicare cosa mettere nella pentola ma per complimentarmi per il lavoro svolto.

 

12 - Dietro-front!

Oggi è dedicato a quella che viene definita la strada più bella dell'Indocina che, a differenza di quanto si legge sui forum di viaggio, dovrebbe essere compreso tra Dong Van e Meo Vac, ma in realtà va da Lung Cu fino a Meo Vac. Lung Cu, il centro abitato più settentrionale del paese a pochissimi chilometri dal confine con la Cina, viene spesso ignorato perché la strada muore lì (non va nemmeno in Cina). Mi alzo presto così posso fare un salto al Cafè Pho Co e fotografarlo con la luce del mattino poi, visto che il pilota pare prendersela comoda, torno al mercato che sembra più vivace del giorno precedente. Torno in albergo, il pilota si è alzato e partiamo in direzione di Lung Cu. I paesaggi sono magnifici come promesso dalla Lonely Planet. Prima di giungere a Lung Cu, il pilota mi fa notare che, in uno spiazzo, ci sono alcuni locali con degli scatoloni e, fra di loro, un poliziotto. Si tratta di un militare della Polizia di Confine, un mestiere molto ambito da queste parti perché, stando a quello che mi dice, la paga non è eccezionale, ma gli extra che si guadagnano, estorcendo tangenti agli spalloni che varcano il confine illegalmente portando le merci più disparate (fra queste anche l'oppio coltivato illegalmente sulle montagne), sono assai cospicui.

 

A ciascuno il suo carico

A ciascuno il suo carico - Archivio Fotografico Pianeta Gaia

 

Giungiamo nel remoto villaggio, riconoscibile da lontano dalla bandiera vietnamita issata su una specie di colonna in cima ad una collina: una terra a lungo contesa agli ingombranti vicini, quindi è giusto vantarne il possesso attraverso un ben visibile vessillo. Visitiamo il villaggio ai piedi della collina e scopriamo, con mia sorpresa, che è abitato dai Lo Lo Neri, una variante dei Lo Lo che pensavo di trovare solamente più avanti nel corso del viaggio, nei dintorni di Cao Bang. Entriamo in un'abitazione: c'è una donna che sparge il riso sull'aia per essiccarlo e un'altra con l'abito tradizionale, una vera rarità, specie in casa e non in occasioni "sociali" come al mercato. Ci fermiamo e cominciamo a fare un po' di conversazione, io tiro anche fuori il mio album con le foto di famiglia che utilizzo quando voglio interagire. Chiediamo se è possibile fotografare la donna vestita ma lei non vuole, nonostante le mie insistenze, mentre la donna che stava spargendo il riso invece si dice disponibile a tirare fuori dall'armadio i vestiti della festa. Vuole 100.000 dong, il doppio di quanto di solito pagavo per le foto e non è disposta a fare sconti. Indossa l'abito, che oggettivamente è notevole, e la fotografo. Il discorso cade sulla lavorazione richiesta per produrlo e loro si dicono anche disposti a venderlo, però alle cifre esorbitanti che dicono di aver ottenuto in precedenza. Il copricapo è particolarmente raffinato, con quei bottoni bianchi usati per motivi decorativi alternati a ricami colorati. Provo a far scendere il prezzo dal milione di dong richiesto (oltre 30 euro) ma non c'è verso: compro lo stesso per arricchire con un pezzo di qualità la mia collezione di cappelli e copricapi. Visitiamo altre case nello stesso villaggio ma non troviamo nessun altro in abiti tradizionali.

 

Torniamo quindi verso Dong Van, dove pranziamo nello stesso posto dove avevamo cenato la sera prima, per una volta che trovo un ristorante dove gradisco i piatti bisogna che ne approfitti. Difatti non sono riuscito a farmi piacere la cucina vietnamita, che pure è considerata una delle più interessanti del sud est asiatico. In teoria dovrebbe avere diversi punti in comune con quella cinese (il riso al posto del pane, i piatti serviti in contemporanea, l’utilizzo di salse, la carne già spezzettata perché si mangia con i bastoncini, diversi piatti come gli involtini primavera e noodles di riso, gli accostamenti di sapori anche contrastanti…) ma, in realtà, l’ho trovata molto meno curata. Mi è parso di trovarmi quasi sempre di fronte agli stessi piatti: forse per colpa del pilota che mi conduceva in ristoranti che facevano il genere di cucina che a lui piaceva, evitandone altri. Difatti, una volta in cui non avevamo altra scelta ci hanno portato delle gustose noodles ma non sono più stato capace di ritrovarle: possibile che, in un clima freddo come nelle montagne, delle noodles galleggianti nel brodo bollente siano una rarità? Poi c’è il modo di cucinare: la mia impressione è che tutto, carne e verdure, venga cotto alla stessa maniera, buttato in pentoloni colmi d'acqua bollente per enne minuti e basta. Nessun condimento in questa fase, quindi in pratica quelle che vengono servite sono fondamentalmente carne e verdura lesse, perché l’aggiunta di sapore pare essere sempre demandata unicamente alle salse. Queste sono: la salsa di soia; una salsa piccante a base di succo di lime, sale e peperoncino; e l’ultima salsa, un liquido di colore giallastro che trovavo nauseabonda al punto da averla soprannominata “piscio di bufalo”. Ovviamente dell’animale ammazzato non si butta via niente, e fin qui va bene, ma senza quell’utile divisione delle parti dell’animale che si usa fare altrove: in pratica di un pollo, una volta tolta la testa e le zampe, il resto viene tagliato in grossolani pezzi di carne, comprensivi di pelle, cartilagine e ossicini e buttato nel tegame. Ne consegue che spesso, di un boccone apparentemente abbondante, in realtà il mangiabile è poco, e la norma è gettare (con i bastoncini) lo scarto per terra, a piedi del tavolo, dove delle pulizie si occuperà il fortunato cane addetto a tale compito. E’ per questo che spesso i pavimenti in cemento, tipici dei ristoranti tradizionali, pigliano un colore nero e una consistenza molliccia.

 

Per tutta la durata del pranzo rimugino poi, appena pagato il conto, prendo il pilota e gli comunico il frutto delle mie elucubrazioni: nel tratto di itinerario che ci separa da Hanoi mi aspettavo di vedere, tra le etnie non ancora viste, unicamente i Lo Lo Neri. A questo punto passare per Bao Lac, Cao Bang e Quang Uyeng significherebbe vedere solo dei paesaggi nuovi, il lago Ba Be e le cascate di Ban Gioc al confine con la Cina, ma non delle popolazioni. Cosa ne pensa se invece torniamo nel distretto di Lai Chau per vedere le etnie che non abbiamo visto e stavolta a Sin Ho ci andiamo per davvero? C'è il tempo materiale per farlo? Capisco subito di sfondare una porta aperta: portarmi (e poi rientrare) alla remota Hanoi non era certo il suo desiderio più sfrenato, molto meglio per lui farmi tornare ad Hanoi in treno, che parte da Lao Cai ad appena un'ora da casa sua a Sapa. Telefoniamo al t.o. il quale non ha nulla in contrario e gli dò l'incarico di prendere i biglietti per la sera del 28 novembre. Il pagamento lo farò ad un suo incaricato e ci sentiremo comunque al cellulare per meglio definire. E inoltre, ricorda il pilota, potremmo approfittarne per dormire dalle Lo Lo che ci avevano invitato. Ma non avevano solo un posto? Che razza di fischiafavole... Finiamo quindi di visitare il pezzo più scenografico della strada, che da Dong Van a Meo Vac raggiunge una spettacolarità senza pari: non solo appuntite vette che si alternano ma anche gole profondissime e strade che si affacciano su strampiombi vertiginosi e che si attorcigliano sui fianchi delle montagne come serpenti in preda a convulsioni. Uno scenario davvero mozzafiato, che da solo giustifica l'intero viaggio. Giunti a Meo Vac, che dopo la "seconda rivoluzione" è diventata l'estremità orientale del viaggio, comincia il rientro verso ovest e, su consiglio raccolto da un passante, torniamo sfruttando la strada che la congiunge a Yen Minh, più corta rispetto a quella che passa da Dong Van ma anche questa molto spettacolare (anche se non passa da Sung La, dove ci sarebbero le Lo Lo). Pernottiamo in quello che è l'albergo meno caro del viaggio ma anche il meno pulito.

 

continua...

 

Il Vietnam delle montagne - I

Il Vietnam delle montagne - II

Il Vietnam delle montagne - III

Il Vietnam delle montagne - IV

 

ESPERTO: Viaggi etnografici e alternativi

Roberto CORNACCHIA

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