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Sahara algerino - III

Diario di un'attraversata nel cuore del grande deserto africano

 

...segue 

 

9° giorno

Siam sempre i primi a far colazione in hotel, poi partiamo passando da Djanet solo per far gasolio prendendo la strada in direzione Illizi. Visitiamo Tikobauin, luogo superbo all’interno dello uadi Asasu, un canyon tra enormi rocce lavorate dal vento in forme incredibili, attraversate da dune che cambiano colore nelle varie illuminazioni del sole. La chicca del luogo è un arco doppio, anzi quasi triplo visto che al di sopra dei due archi c’è una piccola spaccatura che potrebbe essere venduta come il terzo. Qui però par di essere in centro a Londra, c’è gente ovunque, molti han passato qui la fine dell’anno e devono ancora smontare i campi, quindi certi passaggi perdono un po’ di magnificenza. Ma il passaggio di alcuni nomadi con dromedari, che se ne infischiano bellamente di tutto questo paglione, riappacifica la vista. Uscendo per tornare sulla strada asfaltata c’imbattiamo in un’antica tomba pre-islamica dalle forme circolari disegnate sul bordo di una duna, poi si prosegue fino alla deviazione sulla destra per Issendilene. Prima di entrare nel canyon alla ricerca dell’omonima guelta, pranziamo e mostriamo il permesso del Tassili al guardia parco. La guelta dista 30’, il percorso passa tra le pareti strettissime del canyon e sovente il sole non riesce a filtrare, le escursioni termiche sono numerose e forti, poi dopo aver passato un’enorme roccia alta e strettissima si apre la guelta che qui nel mezzo pare un prodigio della natura. Tutto attorno è roccia e sabbia, ma per arrivare alla guelta occorre oltrepassare palme, acacie, tamerici e oleandri, una giungla in miniatura che accresce il fascino del posto. Ci sono marmotte che reclamano rumorosamente la loro tranquillità, mentre gallinelle selvatiche cedono il passo con sufficienza. Troviamo un gruppo di giovani dottori di Algeri in vacanza, uno parla perfettamente italiano e ci scambiamo impressioni del luogo, mai visto da loro come da noi. Poi ci raccontano della situazione politica algerina, della mancanza di alternative elettorali e del cambio della costituzione, ne emerge un posto dalle limitate libertà individuali e dalle poche alternative condite da una tranquillità sociale dovuta alla repressione totale delle forze jihadiste, spazzate via con violenza inaudita. Per ora quindi tutto tranquillo, il loro timore è che questa azione di forza possa essere proposta a parti invertite in un futuro per ora non immediato. Ma intanto ci godiamo il luogo, rientrando pian piano alle jeep per prendere la strada del ritorno alla strada asfaltata. Ritorniamo tra le dune sull’Erg di Admer dove la vista è al solito superba e infinita. Predisponiamo il campo e la cena, che non può competere con quella della sera precedente, ma come tradizione per gli emiliani, non possono mancare i tortellini in ottimo brodo fatto col dado di montone a capodanno. Alle 20:00 la luna sorge rossa in maniera inquietante, sembra un UFO (per un momento ho pensato che il mio amico Catch avesse ragione nel crederci ciecamente!), ma poi quando il riflesso delle rocce non la invade più torna al suo candore solito. In lontananza si scorgono le luci delle jeep che passano sulla strada nazionale, ma ci accorgiamo che pian piano tre mezzi stanno salendo verso di noi. Paiono moto, poi quando arrivano ci accorgiamo che son jeep con una luce sola, oltre agli autisti non c’è nessuno a bordo e qualche inquietudine ci coglie vedendo questi scendere e precipitarsi verso di noi. I nostri autisti conversano con loro, poi gli altri se ne vanno senza mai rivolgerci parola, ci viene detto che stanno cercando i loro equipaggi non più trovati dall’escursione pomeridiana e che il riflesso delle nostre pile li ha tratti in inganno. Non invidio gli escursionisti che se ne stanno nel mezzo delle dune di notte, si prospetta fredda, che noi affrontiamo dopo aver percorso 188 km con temperatura sempre piacevole.

 

Il paesaggio di Tikobaouin

 

10° giorno

Risveglio all’alba dopo una notte fredda, molto fredda come al solito tra le dune, e subito dopo colazione scendiamo dalla dune imbattendoci in una carovana di cammelli in lento movimento mentre taglia la piana sottostante, regalandoci subito un’immagine da deserto perfetto. Prendiamo la statale asfaltata in direzione Illizi che percorriamo fino a Bordj El Houas dove facciamo sosta a una stazione di servizio. Attraversando il paese, ci imbattiamo in un folto gruppo di donne che stanno preparandosi per una festa, cosa che da queste parti capita ben di rado (il gruppo di donne riunito sulla pubblica via, non la festa). Il paese è costituito da tante case basse, quasi tutte disposte lungo la strada, di pietra color deserto e bordate di nero, che fanno un effetto di villette residenziali da quartiere bene, insomma un paese curatissimo, e non traggano in inganno le baracche che si incontrano in entrata e uscita perché servono per gli animali al rientro dai pascoli. Poi la strada sale lungo la Falesia Tin Halfatine, una rocciosa formazione che si estende per vari chilometri, e appena scesi prendiamo a destra la deviazione per il sito di Didier, dove si trovano i graffiti rupestri di Tin Taghiut. Col permesso per il Tassili si entra gratuitamente (lasciamo una mancia alla guida) per vedere i celebri graffiti tra cui quelli dell’antilope coricata che fa bella mostra sulla banconota da 100 dz. Lasciamo il posto mentre un numero imprecisato di auto militari è in arrivo, c’è in visita una delegazione straniera accompagnata dal Ministro della Cultura. Nessun problema però, anzi il ministro si ferma a salutarci e a ringraziare per la nostra presenza in questi luoghi, poi ripartiamo rientrando sulla strada principale sempre asfaltata fermandoci lungo il percorso a ridosso di una capanna per pranzare sotto a un sole bello forte. Si continua per pochi chilometri poi nuova deviazione sempre a destra per raggiungere, in salita, Ihrir, dove facciamo tappa presso una bella guelta e in seguito ci fermiamo sul bordo di un’altissima falesia a rimirare l’incredibile canyon. Centinaia di metri sotto di noi, sorge ancora un villaggio costituito da perfette capanne rotonde abbandonate, le guide non sanno spiegarcene il motivo, sarebbe una bella escursione, ma il tempo dedicato in avvio al Tassili du Hoggar ci impedisce di scendere per passare la notte in questo luogo. Ma nessun rimpianto, l’Hoggar merita molto di più. Si può far tappa su questo mirador perché proprio nei paraggi sorge una specie di campeggio attrezzato, servirebbe per i lavoratori o militari che fanno tappa qui, ma al momento non c’era nessuno. Rientriamo sulla statale fino a un bivio con controllo militare. Occorre avere la lista dei partecipanti al viaggio con tutti i dati girati all’ambasciata, la copia deve rimanere ai militari, ma non c’è nessuna altro controllo e si perde poco tempo. Prendiamo per Afra a sinistra, entrando subito su di una pista ben lontana dalla comodità dell’asfalto, fermandoci dopo poco sulla sinistra dalle parti di Tin Tihdof dove faremo campo tra rocce e dune. Prima con una guida recuperata mentre pascolava dromedari (tra cui uno col suo piccolo tutto bianco), andiamo a vedere varie pitture rupestri tra le formazioni rocciose del posto. Nulla di paragonabile a Jabbaren, però una rappresentante una mucca con alte corna è di una perfezione che lascia sbalorditi. Vicino alle rocce par di avere un termosifone a fianco delle tende, buono per la notte e anche per ripararsi e lavarsi qui nel mezzo senza il freddo solito della sera che non permette di spogliarsi allegramente. Ci deliziamo con una cena abbondante, cucinando sul calar del sole con le rocce alle spalle di un rosso che nemmeno il fuoco porta con se. Al calare del sole la vista delle stelle è ancora più spettacolare anche perché la luna sorge ogni notte più tardi e così risulta maggiore il numero di stelle scrutabili. In una giornata di tanta strada asfaltata abbiamo percorso 222 km.

 

La luna fa capolino sulle dune di Tihoudaine

 

11° giorno

Sveglia dopo un’ottima notte, colazione e poi via per attraversare questa valle verso il posto di vedetta del guardia parco e poi le vicine pitture rupestri di Tasset, all’interno di uno stretto canyon che di mattina ha un’illuminazione ottimale. La zona delle pitture è talmente sovraccarica che risulta difficile vedere e immaginarle tutte nel momento del suo massimo splendore. Gli stupidi esistono anche qui, così su alcune è stato scritto il nome di Taleb o Massiq o simili, insomma il coglione di turno passato in cerca dell’immortalità come le opere lasciate ere fa dai suoi avi. Ripartiamo già avvisati che entreremo su piste pessime, pochi chilometri in tante ore, con nel mezzo un controllo militare che necessita della solita lista di passaggio. Vien male a pensare ai militari di stanza qui (che non sono volontari, vien da pensare che siano quelli puniti…), che per fortuna non decidono di passare il loro tempo con assurde richieste ai pochi passanti. Alcune forature ci permettono di goderci lo scenario che si apre sulla nostra destra, altissime pareti rocciose dalle forme più incredibili (una che pare il disegno dell’Australia, un’altra un pollice alzato alla Fonzie), poi continuando per Afra ci si imbatte in alcune mandrie di capre portate al pascolo da donne del luogo. Afra dovrebbe essere nelle vicinanze, ma per arrivarci occorre attraversare un campo pieno di cespugli del deserto, trovarne l’uscita pare un gioco da settimana enigmistica e ci impegniamo tanto tempo dovendo inventarci passaggi di difficoltà elevata anche per le ridotte delle nostre jeep. Visitiamo Afra facendo scorta di acqua direttamente dal rubinetto di una caserma del posto, poi visitiamo alcune case-botteghe che creano oggetti di metallo da vendere nei mercati di Tam o Djanet (soprattutto gazzelle e antilopi) e usciamo per trovarci un posto all’ombra per il pranzo, dove sbucato dal nulla ci raggiunge un mandriano incuriosito dalla nostra presenza. Continuiamo lungo un’infinita spianata, che non permette di capire le distanze in nessuna direzione, per far tappa al pozzo di Uhnan. Gli autisti improvvisano una lavanderia ambulante utilizzando un barile tagliato a metà dove lavano con acqua del pozzo e detersivo quasi tutti i loro abiti. Ne approfittiamo anche noi per qualche lavaggio, compresi piedi e teste, e anche qui dal nulla compare un Tuareg che, dopo qualche scambio di frasi in tamaschek con gli autisti, beatamente se ne va verso il nulla da cui era comparso. Sosta per recuperare legna per la notte, poi ripartiamo per l’Erg di Tihoudaine e le sue meravigliose dune, dove facciamo tappa per la notte. Ma prima di predisporre il campo, si parte per fare un giro a piedi su queste enormi e perfette dune. Anche qui le dimensioni non sono misurabili, nonostante la prima parte sia ben solida e la salita non difficoltosa non pare mai di arrivare a una meta. Ma dalla sommità lo spettacolo è meraviglioso in ogni dove, e come si fa a scendere? Meglio continuare la passeggiata camminando sul crinale anche se chi soffre di vertigini potrebbe avere soverchie difficoltà nonostante la sabbia freni la discesa. Dall’alto del crinale largo un millimetro, l’impressione di altitudine è molto forte. Si scende che è già buio per predisporre il campo e la cena, e il freddo qui nel mezzo arriva velocemente dando a intendere che la notte sarà dura. Ma ci fortifichiamo con un ottimo brodo coi dadi di montone (dopo qualche giorno qui nel mezzo tutto pare buonissimo, strana sensazione eh?) e nulla fa più paura dopo la solita abbondante cena. Orione e la sua cintura sono la più banale delle viste ormai, al termine di una giornata di 143 km con piste veramente dure e pessime.

 

Ultimi tratti dell'Erg di Admer

 

12° giorno

La notte è freddissima e non si vede l’ora che faccia mattina per incontrare il sole e far colazione con dosi abbondanti di caffè. Mentre smontiamo il campo, al di sopra delle dune sbuca la luna, un’immagine fantastica da riprendere, e pazienza se per lo smontaggio vien perso un po’ di tempo. Partiamo in direzione Tafedest, dorsale granitica che si divide in due parti, quella più meridionale conosciuta come Tafedest Nero, per via delle sue montagne e plateau ovviamente neri a causa delle eruzioni vulcaniche di ere fa (non ci sono ora vulcani attivi) e quello bianco settentrionale, formato in prevalenza da dune. Si percorre una pista nel mezzo del nulla, e proprio qui nel mezzo l’unica indicazione è una balise che segna “l’incrocio” tra la pista per Tam e quella per l’ovest. Una tappa è d’obbligo, anche perché il sole inizia a scaldare e fa piacere sentirselo sulla pelle. Continuiamo verso il lago salato attualmente secco di Amed Gher, però scavando con pale e piccozze ne recuperiamo un po’ per arrivare su di un altipiano che scegliamo come luogo base del pranzo. Riprendiamo la marcia sempre in direzione ovest, dove si inizia a scorgere la catena montuosa del Tafedest che ha come vetta principale il Garet Djenoun (2.327 m, in tamaschek Uhden), ovvero la montagna del diavolo, una grande parete di granito da cui la vista spazia infinita. La possibilità di scalarla c’è dall’altro versante, quello settentrionale, ma noi non abbiamo questo obiettivo e resteremo nel versante meridionale da dove arriviamo. Lungo la pista ci imbattiamo in un vecchio camion francese incidentato e infiammato, tra i relitti tante taniche di carburante, ma anche una macchina da scrivere. Apparteneva a una famiglia francese, nell’incidente l’autista rimasto ferito ha riparato qui, mentre la moglie col cane è andata a cercar aiuti, trovati solo dopo svariati giorni di lunghe fatiche. Il marito, allo stremo e ferito, decise di darsi fuoco col suo camion, utilizzando il carburante ancora a disposizione, e quando la moglie e il cane tornarono con gli aiuti hanno potuto constatare solo la fine dell’uomo. A suo modo un simbolo del deserto, da affrontare sempre con circospezione anche quando pare di esserne già padroni. Arriviamo alla base del Garet Djenoun quando il sole è ancora alto, e per una volta non c’è fretta di organizzare il campo così ci godiamo il luogo con tranquillità, girandoci a piedi lo uadi sotto a cui la montagna si trova nel mezzo di un posto che pare disabitato da sempre, non si incontra persona e nemmeno animali al pascolo. Fra le rocce dove facciamo tappa, la temperatura risulta molto meglio di quella della notte precedente, così è un piacere improvvisare docce minime riscaldati dal tepore che emanano i grandi massi al nostro fianco e ci godiamo una prelibata cena dopo 191 km tutti su pista.

 

Il Garet Djenoun

 

13° giorno

Sveglia all’alba per rimirare il rosso infuocato del Garet Djenoun, che in queste condizioni pare proprio incarnare lo spirito del diavolo, poi seguiamo lo uadi che costeggia la catena montuosa alla ricerca di legna per le prossime notti che si prevedono molto fredde. Ci imbattiamo più volte in gazzelle che però non si riescono mai ad avvicinare e ci fermiamo dopo 30 km a un pozzo usato dai nomadi locali (serve però una corda da legare al secchio a disposizione). Fatta scorta di acqua continuiamo lungo un percorso che più che una pista è giusto un andare in parallelo alle montagne e dopo 90 km è già tempo di pranzo (dal poco chilometraggio si può capire lo stato del cammino). Ripartiamo e dopo nemmeno 10 km un nomade ci chiede un passaggio per il primo villaggio. Anche lui dovrà fermarsi svariate volte con noi per le tante forature/sgonfiamenti di gomme che gli autisti sistemano alla meglio, nella speranza di arrivare a sera in un luogo adatto per predisporre il fuoco e vulcanizzare le camere d’aria. La pista corre sempre nel mezzo di rocce che limitano la velocità, poi c’è il bivio per Tam ma noi continuiamo ancora un po’ per il villaggio di Mertoutek (prima di arrivare sulla destra si trova un’immensa roccia spezzata in tre, come se fosse un uovo appena aperto) che visitiamo brevemente dopo aver ricevuto l’ok dai signori locali, per cercare un posto dove far campo subito dopo. Qui scorre un piccolo fiumiciattolo, quindi ai lati sorge una lunga oasi e ci sono tante abitazioni e tanta gente a lavare, lavorare, insomma dove c’è acqua ci sono attività. Facciamo campo in uno uadi a sinistra del principale ovviamente senza acqua, di fronte a noi una grande montagna sovrastata da uno zuccotto color seppia che col calare del sole e l’arrivo di alcune soffici nubi regala colori spettacolari. È bello starsene sulla vetta di questi rilievi (percorsi semplici per salire) a godersi il tramonto, molto meno bello dover scendere quando il sole tramonta, visto che il tutto avviene in tempi talmente stretti che gli ultimi tratti particolarmente impervi sono da percorre solo con la luce delle torce. Prima di cena arrivano alcuni locali a scroccare un po’ di benzina, gli autisti ci dicono che è normale dover cedere qualcosa agli abitanti del posto in cambio del passaggio sulle loro terre. In previsione del freddo notturno, ci regaliamo l’ultima porzione di tortellini con un surplus di brodo caldo per non farci sentire il freddo prima di dormire, al termine di 148 km quasi tutti su strada inventata.

 

continua...

 

Sahara algerino - I

Sahara algerino - II

 

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Luca COCCHI

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