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Amazzonia - II

Il diario di viaggio di un affascinante avventura nel cuore della foresta pluviale

 

... segue 

 

3 – Gigante d’acqua 

Colazione all'americana nel hostal, non compresa nel prezzo della camera, ma solo dalle 7:00 e io, non ancora completamente allineato con l'orario e complice la luce che alle 5:30 già inonda tutto, all'alba faccio un giretto nei paraggi, per vedere il sole sorgere sul Rio delle Amazzoni, come promette il nome del locale per turisti a pochi passi dal mio alberghetto: Dawn on the Amazon (alba sul Rio delle Amazzoni). Intanto cominciano ad arrivare gli scolari della scuola lì a fianco e tutti vengono rapiti dalle immagini, piuttosto discinte, degli idoli televisivi di cui un venditore ambulante propone poster e figurine. Difficile crescere con valori diversi se fin dalla più tenera età i tuoi punti di riferimento sfoggiano curve mozzafiato o addominali scolpiti.

 

Vado alla sede dell'agenzia dove carichiamo tutto e andiamo all'aeroporto militare di Iquitos, dove ci chiedono i calcio. Ogni tanto si chiede se ci sono novità, ma la risposta è sempre vaga. Non bisogna avere fretta. Verso le 14:30 finalmente ci dicono che è la volta buona. Vengono pesati tutti i bagagli e anche noi passeggeri, proprio così. L'aereo, un Pilatus PC-6 da 10 posti, atterra proprio mentre il cielo si sta incupendo. I bagagli vengono caricati mentre comincia a spiovigginare e colgo lo sguardo preoccupato di Hector. Per fortuna si va lo stesso. Sul velivolo vi sono cinque file da due posti, nella prima due piloti, nella seconda un altro pilota - cosa che mi dà la quasi certezza che sia un volo di addestramento - e Hector, nella terza io e un passeggero, nelle restanti sono ammassati gli scatoloni di viveri e attrezzature per la spedizione.

 

Dall'alto finalmente ammiro il Rio delle Amazzoni in tutta la sua magnificenza. Pur essendo ancora distante dalla foce migliaia di chilometri, è già un colosso e raramente le due rive distano l'una dall'altra meno di un centinaio di metri, spesso anche il doppio o il triplo. Concedetemi una precisazione geografica che sento il dovere di fare perché, almeno quando andavo a scuola io, mi hanno sempre detto che il fiume più lungo del mondo era il Nilo. Questo perché per molto tempo si è ritenuto di considerare la sua fonte la stessa del Rio Maranon, ovvero quello che, alla confluenza col Rio Ucayali, luogo da dove il Rio delle Amazzoni prende questo nome, ha la maggiore portata. Nel 2001 si è invece stabilito che l'Ucayali parte parecchio più lontano, nelle Ande nei pressi di Cusco e secondo l’orientamento più attuale è questo a dover essere preso come fonte. A dire il vero, anche percorrendo in barca tutto il suo corso sarebbe difficile stabilirne l'esatta lunghezza. Questo perché il fiume cambia corso e dimensioni a seconda della stagione: nel pieno del periodo delle piogge la potenza delle sue acque gli fa assumere un percorso più rettilineo ma anche allagare vastissime aree, fino a 100 kilometri dal suo letto; nel periodo più secco, le acque rientrano nell'alveo ma assumono un andamento estremamente serpeggiante. È proprio in questo momento che io lo sto sorvolando e il fiume pare un bambino che vuole ritardare l'appuntamento col dentista e fa di tutto per allungare la strada. Il volo è tranquillo e, contrariamente a quanto mi è successo in passato su dei bimotori, anche piacevole. Sotto c'è un manto verde sterminato, di tanto in tanto solcato da qualche serpente d'acqua marrone. In cielo appare un arcobaleno, e poi un altro. Mi auguro che siano di buon auspicio per il proseguimento del viaggio.

 

Dall'alto si scorge un fiume più grosso degli altri, è lo Javarì sulle cui sponde è adagiata Colonia Angamos. Comincia la discesa, in direzione di quella stretta striscia di un verde più chiaro che si vede dall'alto. è la pista di Colonia Angamos, in pratica un prato largo una 50ina di metri e lungo qualche centinaia di metri. È la prima volta che atterro su una pista non asfaltata: l'erba pare piuttosto alta in certi punti, ma l'atterraggio è morbido. All'arrivo c'è parecchia gente, poiché ad aspettare Hector e il sottoscritto ci sono un paio di persone e l'altro passeggero nel villaggio conosce solo la madre, le altre decine di spettatori sono solamente venuti a godersi l'atterraggio. Del resto, come avrò modo di constatare più di quanto vorrei, non è che a Colonia Angamos le alternative siano poi così tante. Scaricati i bagagli, giungiamo a piedi (qua non esistono nemmeno i mototaxi) in “centro” che è già pomeriggio inoltrato e quindi la risalita del fiume in barca viene rimandata all'indomani. In pratica, per un volo di un’oretta abbiamo impiegato una giornata intera. Ritmi amazzonici.

 

Ci piazziamo per la notte presso le abitazione dei figli di Armando: Dennis, 31enne che sarà la nostra guida locale d’ora in avanti; Lidia, 22enne che ci farà da cuoca; e Wagner, 15enne che farà da portatore. Le case sono rialzate da terra, costituite di norma da un paio di stanze, una per le attività diurne e una per la notte, ma non è sempre così. Costruite utilizzando i tronchi cilindrici della paxiuba, una palma locale, il pavimento è costituito da alcune assi flessibili, leggermente distanziate tra loro e che ballano al mio passaggio (gli indios generalmente sono più leggeri). Vedendo che in alcuni punti ha ceduto, imparo presto a poggiare il piede nei pressi delle travi sottostanti. Anche le pareti sono tutt’altro che stagne, volutamente: il problema non è il freddo - raramente la temperatura scende sotto i 20 gradi - quanto la ventilazione quando il sole picchia e l’uscita del fumo della cucina. Il bagno non c’è: per lavarsi o altro si va al torrente lì a fianco. Faccio un giro per il villaggio, che conta circa 2000 anime, di cui poco più della metà di discendenza Matsés anche se ormai, privi dei tatuaggi tradizionali e vestiti in pantaloncini e maglietta, non è facile distinguerli dai mestizos*. Colonia Angamos, Angamos per tutti, ha una bella via centrale in cemento, con lampioni, aiuole e marciapiedi, le cui estremità una prosegue in un sentiero cementato che porta alla zona ovest del villaggio che termina con una grande caserma - da queste parti, essendo terra di confine, è pieno di militari - e l’altra finisce nel nulla. Non essendoci un singolo mezzo a motore in tutto il villaggio, quando cala l’afa, diversi tratti di questa strada finiscono inevitabilmente col diventare campi da volley, coi lampioni che ben si prestano per attaccarci la rete.

 

Tornato nella capanna, all’imbrunire subisco un assalto ripetuto di grossi tafani che però, dopo un quarto d’ora, mi lasciano in pace. Non si vedono altri insetti, almeno stasera, e mi faccio coraggio. Per cena Lidia ci prepara del pesce con riso e tacacho (platano cotto alla brace e poi pestato e ridotto in polpette fritte nell’olio) che si lascia mangiare. Dennis ci mostra una tartaruga che ha catturato, che presto finirà nella pentola. È buio presto, non c’è illuminazione pubblica o privata se non quella di alcune lanterne ad olio e quindi si va a nanna presto senza guardare la televisione quando sono da poco passate le 19:00: la combinazione di questi due fattori potrebbe spiegare la quantità di bambini che si vedono in giro. Il mio letto, in un angolo della casa di Lidia, è un tappetino di gomma con un paio di lenzuola sotto ad una zanzariera rettangolare, non di rete ma proprio di cotone. Scoprirò poi il perché. Non ho pensato a farmi un cuscino ma ormai non ho voglia di uscire dal mio bozzolo e mi addormento così, cullato dal rumore della pioggia che cade incessante sul tetto di foglie.

 

*= mestizo sta, letteralmente, per meticcio, cioè dal sangue misto. Ma in questo diario di viaggio, in ossequio al significato che attribuiscono a questa parola i Matsés, assume il significato di "qualsiasi altro peruviano non indio".

 

La lunga risalita del Rio Galvez (con abiti di fortuna)

La lunga risalita del Rio Galvez (con abiti di fortuna) - Archivio Fotografico Pianeta Gaia

 

4 – Risalita del fiume

Alle 5:30 è già pieno giorno e comunque, svegliato dai galli e visto che gli altri sono già tutti in piedi, mi unisco alle operazioni. Colazione con pane, burro e marmellata: si vede che c’è la mano dell’organizzazione pro-turisti di Hector ma nemmeno i Matsés disdegnano. Poi si va al porto, ci si registra presso il locale comando di Polizia - stando attendo a non mostrare i soldi, mi suggerisce Hector -, si carica tutto il necessario sulla lancia a motore di Dennis e verso le 8:00 si parte. Al gruppo già menzionato si è aggiunta Karen, una birba di 3 anni, figlia di Lidia, che ci accompagnerà per tutta la spedizione. La giornata è ideale per navigare: non c’è il sole che ci ustionerebbe ma nemmeno c’è la pioggia che renderebbe tutto più scomodo, benché la traversina di legno su cui poggio le chiappe sia fradicia per la pioggia notturna e finisco con l’asciugarla io. Dapprima risaliamo il fiume Javarì per pochi kilometri, poi entriamo nel suo affluente Rio Galvez, che risaliremo fino all’ultimo villaggio abitato, Buen Perù Nuevo. È un lungo trasferimento: circa 9 ore di navigazione per percorrere 85 kilometri di fiume, interrotte solo per una sosta, immagino, per far fare la pupù alla bimba - perché la pipì la faceva al volo col sederino fuori bordo - e fare un saluto ad un fratello di Armando che abita in uno dei villaggi lungo il fiume (ma non era in casa). Per fortuna il clima favorevole, la brezza salvifica che ci accarezza mentre procediamo sulle quiete e scure acque del Rio Galvez e qualche bella chiacchiera di viaggio con Hector rendono lo spostamento meno pesante. Durante il tragitto si vedono diversi uccelli: aironi, aquile pescatrici, anì (degli uccelli dal piumaggio nero/bluastro), tucani dal caratteristico volo ondeggiante e pappagalli ara, immancabilmente in coppia. Individuo qualcosa di grosso che si muove nell’acqua e poco dopo uno sbuffo: sono delfini rosa.

 

Giungiamo al villaggio di Buen Perù Nuevo verso le 17:00 e ci accampiamo nella casa di Armando. Una frotta di bambini ci circonda, siamo la novità del giorno e allora mi gioco subito l’asso di briscola. Tiro fuori la macchina fotografica e tutti vogliono farsi scattare una foto per poi rivedersi, tra sincere risate, nel display. Ormai però è già parecchio buio e le foto, dovendole scattare col flash, non possono essere particolarmente belle ma i bimbi continuano a chiedere altri scatti. A partire da ieri non posso più ricaricare le batterie ma ho in totale 5 pile (3 per la D90 e 2 per la D5000) e spero che mi basteranno per il periodo che sarò senza elettricità. Mentre attendiamo che ci preparino la cena, Hector, che si dimostra un insospettato animale da compagnia, tira fuori una moneta e mostra un trucco da illusionisti agli indios. Sfrega la moneta velocemente con la mano destra sul proprio avambraccio sinistro dicendo che, se riesce a raggiungere la giusta combinazione di velocità e forza, riuscirà ad infilarla nel braccio. Nel farlo ogni tanto la moneta gli sfugge, la riprende e ricomincia. Così tre, quattro volte fino a quando la moneta non sparisce come promesso. Gli indios rimangono a bocca aperta e, anche se ridono, non riescono a capire come Hector ci riesca e gli chiedono subito il bis, cosa per la quale Hector pretende un’altra moneta poiché l’altra “ormai non la posso più recuperare, è dentro al braccio”. La seconda volta che ripete il trucco lo stano: molto semplicemente quando la moneta cade e la raccoglie con la sinistra, invece di metterla nella mano destra, se la lascia scivolare dentro la maglietta, lungo la schiena, mentre gli occhi degli altri sono concentrati sulla mano destra che sfrega l’avambraccio già priva della moneta. Solo in quella serata Hector, che è bravo a distogliere l’attenzione e a creare sempre nuovi motivi di dubbio negli astanti, raccoglie diverse monete. In una comunità india ci potrebbe campare. Il trucco di Hector scoperchia il vaso di Pandora. Scaldatosi con quello, Hector poi propone altri giochi con le mani e allora anch’io, che ho passato l’infanzia a fare di queste stupidaggini, ne sfoggio alcuni: in particolare le pernacchie fatte sfregando le mani tra di loro e un rumore che faccio sfregando indice e pollice che assomiglia al gracidare di una rana, riscuotono grande successo. Ci ho messo quasi cinquant’anni per scoprirlo, ma lo sapevo che prima o poi queste baggianate si sarebbero rivelate utili!

 

Cena a base di fusilli, conditi con aglio e pomodori, un chiaro retaggio del fatto che Hector in passato ha spesso avuto clienti italiani, cosa di cui non posso che essere lieto. L’acqua è sostituita dal tè, e non a caso: da oggi e fino al rientro nella “civiltà” l’unica acqua disponibile è quella del fiume. Loro la bevono tranquillamente, cosa che uno stomaco occidentale non può fare. L’acqua è appena stata bollita per renderla potabile e quindi, ancora bollente, è bastata servirla con una bustina in infusione. La serata prosegue nella casa a fianco, che come a Angamos è abitata da parenti, dove alla luce di una lanterna, si chiacchiera o si raccontano e ascoltano storie, mentre ci si dondola sulle amache per ottenere un minimo di brezza in più, e intanto i più piccoli, sdraiati sul pavimento e con la testa poggiata sulle ginocchia delle mamme, ben presto partono per il mondo dei sogni. Il primo personaggio di cui si parla è il temibile Manuel, padre di Armando e quindi nonno dei componenti dello staff, passato alla storia per la sua fama di grande guerriero, grande cacciatore e sempre pronto a dissotterrare l’ascia di guerra per attaccare i villaggi nemici. È un po’ il personaggio principale che animerà tutti i racconti che sentirò d’ora in poi, anche perché la sua scomparsa coincide con la decadenza dei costumi tradizionali Matsés.

 

Verso la fine degli anni ’60, in territorio Matsés cominciarono ad arrivare i primi missionari. Era un periodo piuttosto difficile per i Matsés: da sempre abituati a combattere con gli indios vicini e ad attaccare chiunque entrasse nel loro territorio, in quei tempi stavano subendo i primi tentativi di penetrazione da parte dei bianchi, sempre alla ricerca di piante e terreni da sfruttare. Benché gli invasori avessero dei fucili, grazie alla maggiore conoscenza della foresta i Matsés, armati di sole frecce e lance, seppero respingere gli indesiderati con perdite. Ma costoro non si persero d’animo, e forti dell’appoggio del governo peruviano, erano pronti a bombardare i villaggi. Fu in questo momento che dei missionari si fecero avanti, chiedendo di lasciare loro tentare la via più diplomatica del contatto che la distruzione. I contatti riuscirono, anche perché i Matsés capirono che, se nel loro villaggio ci fossero stati dei bianchi, non li avrebbero bombardati. Ovviamente, a partire da quella data, lo stile di vita dei Matsés è cambiato molto, come apprenderò in seguito dalla viva voce di un anziano. Si stima che i Matsés, ad oggi, siano circa 3000, di cui un terzo in territorio brasiliano.

 

Piccole canaglie indios

Piccole canaglie indios - Archivio Fotografico Pianeta Gaia

 

Imparo come nacque questo villaggio, che si chiama Buen Perù Nuevo. In origine era molto più a monte sullo stesso fiume e si chiamava solo Buen Perù. Un giorno, un figlio 15enne di Dunu, l’anziano Matsés che incontrerò domani, stava lavorando nella chacra (campo coltivato in mezzo alla foresta) di famiglia quando venne attaccato da un otorongo (parola che in lingua Matsés si usa per indicare qualsiasi felino, sia i giaguari che le pantere nere – che altro non sono che giaguari in cui il gene dominante del colore nero ha prevalso, anche se per gli indios si tratta di due animali diversi – che i piccoli ocelot). Con le carni dilaniate dagli artigli del poderoso felino - i maschi adulti in media raggiungono i 90 kg, una volta e mezzo le dimensione di un leopardo - in punti vitali come la nuca, al punto che già gli anziani nel vederlo avevano capito che non sarebbe sopravvissuto, fu in grado di tornare al villaggio a dare l’allarme, nonostante l’animale non volesse abbandonare la preda e lo seguisse. Gli uomini del villaggio organizzarono velocemente una battuta di caccia per far fuori l’animale e quando lo trovarono dovettero sparargli ben 15 volte prima di vederlo stramazzare. Rientrati al villaggio, il ragazzo in fin di vita ebbe appena il fiato per dire che i giaguari che l’avevano assalito erano in coppia, che non si sarebbero mai liberati di loro e che l’unica soluzione era andarsene da quel luogo maledetto. Fu così che Dunu e la sua famiglia misero i pochi beni sulle barche, scesero il corso del fiume per due giorni e fecero nascere il villaggio dove dormirò stanotte. Andarsi a letto con queste storie nella testa mi sembra un regalo prezioso e che la lancia a motore, invece che nello spazio, mi abbia fatto viaggiare nel tempo, trasportandomi in un’epoca lontana.

 

continua...

 

Amazzonia - I

 

ESPERTO: Viaggi etnografici e alternativi

Roberto CORNACCHIA

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